LET’S MOVIE 415 da NY commenta “WALKING ON WATER” di Andrey Paounov

Musical, Moviers,
parliamo di lui, del musical.
La questione è delicata. Nel senso che io e lui non siamo mai andati
molto d’accordo. Ho cercato di scavare dietro a questa mia assai
immotivata respingenza. Scava, scava, scava, ma non ho trovato granché,
se non forse dei resti di malessere lasciati da un atteggiamento un po’
calvinista nei confronti dell’entertainment.
Ogni forma di divertimento che trova espressione in un organismo
artistico deve portare al coinvolgimento intellettuale, e lasciare delle
tracce al seguito. Questo ho sempre pensato. Calvinista che sono.
Questo approccio, con il musical, non ci va molto d’accordo. Il musical
sono due, tre, quattro ore di entertainment puro e totale. Senza postumi
arrovellamenti, senza dibattiti grondanti materia celebrale.
E poi c’è quella cosa lì del cantare e del ballare così, di punto in
bianco. Cioè. Un attore parla normale e poi d’un tratto, via, attacca a
dimenarsi scatenato, e con lui, tutto il cast. For real?
Da purista del recitato, ho sempre fatto fatica ad accettare questa
variazione sul palco. Sin da piccola. Sin da “Tutti insieme
appassionatamente”, da “Mary Poppins”. Quando Julie Andrews, dopo aver
vinto la corsa ai cavalli, attaccava con “supercalifragilistichespiralitoso” — che, per la cronaca, non si dice “supercalifragilistichespiralitoso”, ma “supercalifragilisticexpialidocious”
— oppure quando si metteva a ballare coi figli Von Trapp prima di farli
andare a letto, io, anche da piccola, storcevo il naso. Lo trovavo
innaturale. Mi dicevo, mannò, ma questo mi rovina tutto! Questo lo devo
fare io dentro la mia fantasia, con i miei colori, le mie note e i miei movimenti. Così mi rubi la parte più bella!
E questo è il motivo per cui ho dei ricordi molto poco chiari dei due film. Visti una volta, non li ho voluti rivedere più.
Categorica anche da mocciosa.
Negli anni, poi, ho flirtato con esperimenti borderline, al cinema. Tipo “Flashdance”.
“Flashdance” non è un musical, ma c’è molta danza. E c’è la storia della
ragazza saldatrice, e si era mai immaginata e vista, prima, una ragazza
che facesse di professione la saldatrice?? Una figlia riuscitissima di
Marie Curie, una Montalcini con la fiamma ossidrica al posto del
microscopio. Certo che aveva appeal sulle ragazzine! Aveva più appeal
quello che la storia d’amore con il suo capofabbrica. E poi ovviamente
gli scaldamuscoli, la bici da corsa, quell’atmosfera da città americana
industriale — scopro ora essere Pittsburgh — da cui Alex si liberava,
spiccando il volo nei cieli della danza — ah what a feeling!
Ma in “Flashdance” i protagonisti non si mettono a ballare di punto in bianco. Ballano di professione.
L’esperimento più riuscito di musical al cinema è “La La Land”. Lì ho
accettato tutto, persino la gravissima goffaggine di Ryan Gosling nei
panni di ballerino, perché il film in sé è un tributo alla Hollywood dei
film musicali prodotti tra gli anni ‘50 e ’60, e a quell’atmosfera
onirica attorno a quell’epoca, partendo dallo stesso titolo, che è sia
un riferimento alla città di Los Angeles, sia all’espressione “essere
nel mondo dei sogni, sulle nuvole, fuori dalla realtà”.
E poi è un capolavoro, e davanti ai capolavori, ti fai andare bene tutto.
Ma forse, in tutto questo, l’antipatia per il musical mi arrivava dal
fatto che erano musical al cinema, o in televisione. Lo schermo è come
l’acqua: amplifica, ma diluisce. E forse in quel passaggio, si perde
qualcosa del succo contenuto in quel genere artistico. Non so di
preciso.
Sta di fatto che ora sono qui. New York City è la capitale del musical, è la casa di Broadway. Non la strada, il quartiere.
Ogni volta si fa confusione. La Broadway è una strada, che sconfina
Manhattan. La sconfina di un bel po’. Pensate che parte da Sleepy Hollow
— la cittadina del mistero di Tim Burton! — scende giù lungo lo Stato
di New York, attraversa il Bronx e North Manhattan, sfiora casa mia,
prosegue giù giù, curva leggermente verso Ovest all’altezza della
49esima Strada, taglia Times Square, passa accanto alla Quinta Avenue,
saluta il Flatiron Building alla sua destra, per concludere la sua corsa
a Battery Park.
Quella è la strada. Ma sul rettangolo tra la 40esima e la 54esima, e la
Sesta e l’Ottava Avenue, all’interno del quale spunta Times Square,
sorgono qualcosa come quarantun teatri. Quel rettangolo lì è Broadway.
La zona di Times Square, sulla 42esima, cerco di evitarla il più
possibile. Per via del bestiame turistico che vi pascola. Scarpe da
ginnastica, buste di plastica piene di shopping da M&Ms oppure NY
Gifts, smartphone perennemente davanti agli occhi. Hotdog in bocca,
qualche beverone colorato nella mano libera.
Quindi la mia percezione del Theater District, è invasa da queste mandrie che non transumanzano mai.
Quando vado al MoMA, sulla 53esima, cammino la parte nord di Broadway. E
quella è un’area accettabile. Passi accanto al Broadway Theater, dove
danno sempre il musical “King Kong”, e ti spunta, sulla sinistra, lui,
lo scimmione, e voi, per una frazione di secondo, pensate alla povera
Jessica Lange, lo stuzzicadenti fra le sue dita scimmiesche. Poi il
ciarpame colorato del 21esimo secolo tutt’intorno ha la meglio, ma per
una frazione di secondo, siete lì, schiavi del primate più bistrattato
della storia. Passate davanti al The Late Show with Stephen Colbert, che
ha rimpiazzato David Letterman, con le sue lucine rosse e quell’aria
newyorkese che conoscete tutti.
Non è male, la zona nord di Broadway. Il bestiame è meno insistente, si
cammina decentemente e si apprezzano certi istanti in cui ti ritrovi a
dire a te stesso, anche dopo tre anni di qui, wow, sono a Broadway.
Allora, siccome sono a New York City, ho l’età in cui forse è arrivata
l’ora di uccidere la mocciosa categorica — ma anche solo gambizzarla va
bene — accetto di andare a vedere il musical “Chicago”, allo storico
Ambassador Theater.
L’Ambassador sta sulla 49esima, tra la Broadway (la strada) e l’Ottava
Avenue, in un punto abbastanza in salita. Lo ricordo spesso: NYC non
è piatta, per quanto l’immaginario collettivo la consideri tale —forse è
una qualche deriva del terrappiattismo, che scopro essere molto in voga
al momento in Italia…
Aperto nel 1921, l’Ambassador conserva ancora il sapore di quegli anni.
Mattoni sporchi da Londra dickensiana, una sezione leggermente
tondeggiante, l’immancabile impalcatura tra pianoterra e primo piano che
lo radica nel presente dell’eterno work-in-progress newyorkese. Sopra, a
proposito di “Chicago”, campeggia d’un rosso orgolioso la scritta “The
longest running American musical in Broadway history”. E dentro, il
teatro stilla anni ruggenti. Il palco abbracciato da platea e loggioni,
in una forma circolare da Globe Theater. Il grosso lampadario di
cristallo che penda dall’alto, il marmo assai dozzinale — niente
travertino — delle modanature, le poltrone che hanno accolto chissà
quanti sederi e la piacevole sensazione dell’usato che sa di mitico.
Il pubblico intorno a me è prevalentemente bovino; del resto, quando
vieni a New York per 7 giorni 6 notti, uno spettacolo a Braodway è
sempre previsto nel pacchetto. Nella fila dietro alla mia, tre amiche
italiane trattano argomenti prevalentemente fisici: “No, dopo io torno
in camera, non vengo… Se volete andare, voi, andate pure, io vi aspetto
in albergo. Con tutto quello che abbiamo camminato oggi… Sono stanca
morta… Ma voi andate pure…”
Cattle talking.
Poi “Chicago” attacca. Sulle note di “All That Jazz”, che scopro originare proprio lì, in quel musical — mi pensavo fosse una hit di qualche vaudeville…
Non vi farò qui un pippone sulla trama. Basti sapere quanto segue: è
ambientato negli anni ‘20, Roxie Hart è una chorus girl che, per farsi
strada nel mondo dello spettacolo, uccide il suo amante; Billy Flynn è
un avvocato scaltro che farà di lei una celebrità; l’altra donna in
scena è Velma Kelly, una leonessa borderline coguar, anche lei star
dello showbiz, che sulle prime avrà Roxie in antipatia, ma poi le due
faranno squadra e conquisteranno Broadway insieme.
Se non siete nei paraggi di New York, e il cinema non vi dispiace,
guardatevi il film “Chicago” di Paul Marshall con Renée Zellwegger,
Katherine Zeta-Jones e Richard Gere — per altro vinse sei Oscar nel
2002…
Se invece siete nei paraggi, e non sapete scegliere quale musical
vedere— ne avete una gran quantità fra cui scegliere, tra My Fair Lady,
The Phantom of the Opera, Pretty Woman, Tootsie, Wicked, To Kill a
Mockingbird, The Lion King, Mean Girls, Hamilton, Aladdin, Frozen,
Beetlejuice, The Book of Mormoms, Beautiful, etc. — e volete rivivere un
po’ della New York al sapor di Zegfield Follies e champagne, gangsters e
pupe, “Chicago” fa proprio per voi.
Non è tanto la trama. Mamma mia, è lo spettacolo.
Sono le attrici, che sono cantanti e ballerine. Dee. Con dei corpi che
non si possono spiegare. Delle gambe che sono fiori: spuntano ovunque,
stanno bene ovunque. Delle voci da Grammy Awards, una danza da Julliard
School. E naturalmente gli attori, che no, non sono da meno, ma
“Chicago” è un musical in cui le protagoniste sono due, Roxie e Velma,
una giovane, una più attempata. Due facce della stessa medaglia
femminile: la tramp — la monella — con la testa un po’ vuota,
un corpo da urlo, grandi sogni in tasca e una realtà che nella maggior
parte dei casi delude, ma che può anche riservare sorprese.
Un ritmo trascinante, una band sul palco che è parte integrante dello
show e che suona come la Wiener Orchestra suona il concerto del Primo
dell’Anno. Se prendo “L’opera di tre soldi” di Brecht — veneratissima! —
Liza Minnelli in “New York New York”, “Bonnie e Clyde”, la natura
malandrina di Louise Brooks, la navigata esperienza di Sharon Stone,
shakero tutto insieme, posso servirvi il cocktail dall’alto tasso
erotico che è “Chicago”.
Non c’è nulla di volgare. Ma l’atmosfera viaggia tutta sul sottilmente
licenzioso. Gambe svolazzanti, balletti ammicanti, cappelli a cilindro
su chiome biondissime e bastoni lucidi in mano a donne mozzafiato, abiti
neri in vedo-non-vedo-ma-immagino-molto, luci gialle soffuse. Devo andare avanti?
Passano così due ore e mezza di entertainment puro, in cui è come
respirare l’elio, e parlare come Paperino, oppure l’etere, e volare come
Dumbo. E davvero non pensi a niente se non a come si possa ricreare
tutto ciò in maniera così credibile, e allo stesso tempo così sopra le
righe. E a come si possa arrivare a un livello di performance, di
talento, così alto. Le risposte a queste domande ovviamente si trovano.
Questi artisti escono da fior fior di accademie, e ripetono lo show over and over per chissà quante sere all’anno. Repetita iuvant. Un sacco.
Poi gli americani, una cosa hanno inventato. Il musical. Lasciamoli eccellere.
Quando lo spettacolo finisce, le luci si accendono, gli spettatori,
ancora visibilmente su di giri prendono a defluire dal teatro,
commentando nel frattempo how awesome the whole thing was, ti
ritrovi in un attimo dentro il 21esimo secolo. I cartelloni pubblicitari
elettronici sulle pareti degli edifici, i pullman che aspettano di
caricare i capi di bestiame e riportarli ai rispettivi alberghi, gli
Uber parcheggiati in doppiafila, in attesa di chissachì. E le Nike ai
piedi della maggior parte del mondo. E gli Iphone in mano.
Basta poco poco a spezzare l’incantesimo.
Confesso che dopo le prime due ore, ho cominciato a sentire, in
lontananza, il richiamo di Calvino. Non di Italo, che quello è soave. Ma
di Giovanni, il riformatore con la frusta in mano. Ovvero, ho
cominciato a chiedermi se fosse lecito, non pensare a nulla di nulla in
maniera così spudorata. Guardare e morire e rinascere davanti a quelle
creature che portano in vita questo musical sin dal 1975, senza
smetterlo mai.
Mentre ero lì, fra gemiti di trombe e all that jazz, ho pensato
che sì, può essere lecito, una volta ogni tanto, non pensare a nulla in
maniera così spudorata. Una volta ogni tanto. E credo di non essere io,
la sola a pensarlo.
Tuttavia, un fatto interessante. Il musical che ha incassato più di
tutti i musical di tutti i tempi — si sono arrivati a spendere 4.000
dollari per un biglietto — è “Hamilton”, che dal 2015 a oggi è un
fenomeno senza precedenti. Quando arrivai qui nel 2016, non si faceva
che parlare di lui.
Alexander Hamilton è uno dei Padri fondatori degli Stati Uniti: ha
firmato la Dichiarazione d’indipendenza, per capirci. “Hamilton” il
musical propone un cast multietnico e racconta la vita del personaggio
attraverso la musica contemporanea: molte canzoni sono hip hop, rap e
R&B. Una trama corposa, che attraversa la storia degli Stati Uniti,
ma rappeggiando, funkeggiando.
Allora io penso che quando vedi “Hamilton”, un po’ di cervello, lo fai
funzionare. Sarà per questo che dal 2015 ha incassato 63 milioni di
dollari — 63 millioni di dollari — vinto il premio Pulitzer 2016 per il teatro, il Grammy 2016 per il miglior disco di un musical e ricevuto 8 Tony Awards.
Voglio credere che il cervello paghi sempre.
Questa settimana è stata specialissima per me, cinematograficamente parlando. Sono stata a vedere “Walking on Water”, di Andrey Paounov, il documentario che racconta l’avventura del land-artist Christo sul Lago d’Iseo, dove, nel 2016, costruì quel sogno arancio che fu la passerella flottante chiamata Floating Piers.
Presentato al Festival di Locarno, non vedevo l’ora che il documentario
arrivasse qui a New York. E questo perché quell’istallazione ha un
valore affettivo per la qui presente, che il 30 giugno 2016, prese il
treno e andò a Sulzano apposta per camminare sull’acqua resa camminabile
grazie al sogno di un artista.
Nel Frunyc IV trovate degli scatti di quel giorno, e qui, la prova provata del Board flottante 🙂
Ci andai da sola: la folla spaventava tutti. Spaventava anche me,
naturalmente. Ma poi la razionalità dell’irrazionale ha avuto la meglio.
Non sarebbe atterrata mai più, una passerella color dell’alba, sul Lago
d’Iseo — I mean, il Lago d’Iseo, a parte cadaveri e tritoni,
cosa ospita? 🙂 Non sarebbe atterrata mai più in nessun’altra parte del
mondo. Le opere di Christo sono uniche, irripetibili e hanno durata
limitata. Come quando impacchettò di cellophan il Reichstag a Berlino.
Oppure quando fece scorrere 30 km di nastro e portici arancio a Central
Park. O quando piazzò un trapezio di più di 7.000 barili colorati in
mezzo al lago di Hyde Park, a Londra.
La differenza tra quelle opere — già di per sé geniali — e Floating
Piers, è l’interattività: lo spettatore, letteralmente, camminava
l’opera.
Potevo perdermi quell’esperienza?
No, non potevo, e nemmeno un milione e mezzo di altre persone avrebbero
potuto — il totale di visitatori in 16 giorni di Floating Piers.
Rimango pur sempre una mocciosa categorica.
Allora domenica scorsa, una domenica un po’ alta e un po’ bassa, come le
domeniche talvolta possono essere, mi dirigo verso il Film Forum, nel
Greenwich Village. Arrivando con un ritardo pericolosissimo, vedo un
piccolo crocchio di persone fuori dal cinema. Non me ne curo molto, ma
vedo anche il cartello che mi avvisa della fila da fare per i biglietti
di “Walking on Water”.
Siccome un ritardo pericolosissimo mi alita sul collo, non ho il tempo
di badare né al crocchio né al cartello. Mi precipito dentro e chiedo un
biglietto al bigliettaio. Lui, una pasta di bigliettaio, mi dice che
forse Christo è ancora fuori…
“Christo?? Fuori??”
“Sì, Christo, fuori”, mi sorride. “Prova a vedere se c’è ancora”.
Spalanco la porta — forse, la scardino — esco, ed è lì, lo scricciolo
84enne Christo. Lo riconosco da Sulzano. Piccolo, magrissimo,
abbronzato, i capelli alla Einstein. Quand’ero sulle passerelle, in quel
giugno 2016, passò in barca. La barca rallentò, lui salutò tutti, e poi
sfrecciò via.
Ed eccoci qui, tre anni dopo, lui davanti a me, a New York City.
È in procinto di andarsene e sta salutando l’ultimo qualcuno che gli chiede un autografo.
Io corro verso di lui, ed esclamo, come una pazza — proprio una pazza di
quelle vere, non di quelle inventate — “Christo, wait! I was in
Sulzano… I walked the Piers!”
Lui si gira, e mi guarda come se avesse visto una pazza — il che non
faceva una grinza. Allora mi ha sorriso, mi ha detto “Really?” e poi mi
ha firmato una cartolina promozionale del documentario — che da domenica
scorsa ha trasformato la mia stanza in una sede distaccata del MoMA.
Poi il suo staff se l’è portato via, come la barca tre anni fa.
Se qualcuno mi avesse detto, nel giugno 2016, che, nel maggio 2019,
avrei incontrato Christo a New York City, città in cui sarei stata
domiciliata, gli avrei tirato un pugno. Un pugno di quelli veri, non
inventati. Perché non si scherza con i sogni.
Rientro nel cinema, dico alla pasta di bigliettaio che ce l’ho fatta —l’ho salutato prima che se ne andasse, gli ho detto che io c’ero!
— il bigliettaio si spalanca in un altro sorriso, fa il gesto “you
rule”, e sbotta in un “Ah doooope, I knew you’d make it!”, così sentito e
sincero, come se fosse stato lui a mancare per un soffio l’artista e ad
acciuffarlo all’ultimo.
Io, gasatissima da questo incontro piovuto giù dal cielo, e portata in
trionfo dal bigliettaio, volo in sala, dove hanno appena schiacciato
play, e mi godo il documentario.
“Walking on Water” è il making-of del progetto: 3 km di passerella che
hanno connesso due sponde del lago e l’isola di Sant’Anna in mezzo al
lago.
Il progetto in sé risale al 2006, quando l’amatissima moglie
Jeanne-Claude, con cui Christo ha realizzato tutte le sue opere, era
ancora in vita. I due lo proposero ad Argentina e Giappone, ma entrambi i
paesi lo rifiutarono. Il fatto che l’Italia l’abbia accettato, mi ha
scatenato quel guizzo incandescente dentro che si chiama orgoglio.
Bisogna avere una dose massiccia di visionarietà per immaginare un’opera
di Christo, e l’impatto che può avere sulle persone.
Il ducumentario regala vedute dall’alto di cui, se avete camminato le
Piers, non avete potuto beneficiare. Inoltre, presenta tutte le
difficoltà logistiche, ingegneristiche, metereologiche, burocratiche che
l’artista e il suo staff hanno dovuto affrontare per realizzare il
progetto. La burocrazia — siamo italiani, sappiamo di cosa stiamo
parlando — soprattutto legata alla questione della sicurezza, ha
minacciato di far chiudere l’opera al pubblico il terzo giorno, dopo c
he i primi due hanno accolto più di 100.000 persone. Ma anche il meteo
ci si è messo di mezzo. Temporali e burrasche hanno sferzato il Lago per
buona parte del periodo in cui il team ha montato le passerelle,
ostacolando i lavori, e accendendo molto gli animi.
Il caso ha voluto che il 23 giugno 2016, la Brexit abbia distolto molta
dell’attenzione dei media dall’opera, e questo ha disteso un po’ gli
animi tra le Forze dell’ordine e lo staff di Christo, che erano a un
passo dal chiudere tutto l’ambaradan.
Attraverso uno stile molto discreto e non invasivo, il documentario
segue questo fuscello d’uomo farsi strada fra tutti gli inghippi, le
incombenze, i cerimoniali che hanno richiesto la sua presenza —
memorabile la festa poshissima nella villa sull’Isola di Sant’Anna, dove
gli invitati probabilmente non sapevano nulla di Christo e dei suoi
lavori, ma erano lì, con i loro smart-phone di gran gusto ricoperti da gusci Louis Vuitton pronti a instagrammare tutto, e far sapere, mi hanno invitato.
“Walking on Water” si conclude in maniera molto accattivante. Christo in
mezzo al deserto, un blocchetto per terra, le sue mani a forma di
cornice dentro cui fa stare il deserto. Chissà cosa sta tramando…
Consiglio a tutti il documentario, sia a quelli che hanno camminato
sulla stoffa mobile delle Floating Piers, sia a quelli che non ci hanno
camminato. L’arte è 1% ispirazione e 99% lavoro, dedizione, abnegazione,
scazzi. Non lo si scordi.
E per oggi è tutto, Moviers — sono andata lunghissimissima oggi…
Frunyc IV sempre aggiornato e saluti, musicalmente cinematografici.
Let’s Movie
The Board
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