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LET’S MOVIE 416 da NYC commenta “LA CADUTA DELL’IMPERO AMERICANO” di Dennis Arcand

Millennial, Moviers,
l’avevo sempre assocciato ai bimbiminkia. Lo confesso. Quella categoria
di gioventù nata post millennium bug — che poi non c’è stato — che
galleggia in una cultura molto molto after pop, oppure iper pop, che
snocciola anglicismi per dimostrare God knows what, acronimi, emoticon, e
che soprattutto vive attaccata ai social networks.
Condivido —e confesso— il fitto uso di anglicismi e una spiccata
simpatia per le emoticon. Ma grazie a God, questo non fa di me una
Millennial. Io mi fermo prima dei social networks, prima di Facebook
dalla curiosità morbosa, prima di Instagram, la malattia che t’impesta
anche solo pronunciandola. Appartengo alla generazione X. O alla
generazione 1.000 Euro. Quelli nati post Baby Boom, tra il 1960 e il
1980. Quelli targati Beverly Hills 90210, solo perché Melrose Place lo
davano troppo tardi.
Insomma, nel mio immaginario, il Millennial è un mocciosetto con un
sacco di brand tatuati addosso, sulla pelle, ma soprattutto sui vestiti,
vestiti che mescola con finta casualità. Come se precipitasse ogni
mattina dentro un armadio e ne uscisse conciato come Fedez.
Ma in realtà nulla è random, o totalmente random. Questa è forse la
prima generazione del pianeta terra che ha accesso a una mole di
conoscenza in tempo reale che le generazioni precedenti non osavano
sognare nemmeno nei loro sogni più startrek. Questo li rende molto
consapevoli. Non consapevoli di sé stessi — questo proprio no,
sono pur sempre dei girini umani — ma consapevoli di ciò che li circonda
nel raggio di un paio di metri, a partire da una maglietta, un paio di
scarpe. Cresciuti con un supporto tecnologico in mano sin dal loro anno
zero, sanno tantissimi nomi — una quantità spropositata di nomi — ma
nella maggior parte dei casi, non sanno cosa ci sia dietro, a quei nomi.
Ragionano a keyword e buzzword e hotword perché è molto più semplice
distillare la realtà dentro una parola, che smazzarsi l’oceano di
implicazioni che quella goccia nasconde.
Allora me li sono sempre immaginati un po’ così, questi Millennial.
Fino a mercoledì.
Mercoledì ho participato, per il secondo anno, all’Adjunct Summer
Institute. Una giornata che l’FIT organizza apposta per i suoi Adjunct,
ovvero i professori che non detengono una cattedra, ma che vengono
assunti di semestre in semestre a seconda delle necessità. Dato che le
cattedre sono pochissime e ambitissime, la maggior parte dei Professori
in America sono Adjunct — il 67% all’FIT, per la precisione.
Essere Adjunct ti espone al precariato e all’incertezza, ma anche alla
possibilità di lavorare per più università, conoscere realtà accademiche
diverse, studenti diversi. Non è poi la fine del mondo.
Il fatto è che in Italia c’è la fissa del posto fisso. Il tempo
indeterminato ti autodetermina. Qui funziona in un altro modo. O impari a
convivere con questa precarietà — che poi, in fin dei conti, è una
caratteristica esistenziale più che una condizione lavorativa —
oppure…oppure alzi i tacchi e prenoti l’aereo.
Dato che l’FIT appoggia il citato 67% del proprio peso sulle spalle
degli Adjunct Professor, vede di trattarli bene, o per lo meno, meglio
di altri atenei che li sottopagano alla stregua dei braccianti del
Verga, il Giovanni.
Allora l’FIT, ogni fine maggio, organizza questa giornata per
(in)formarci in merito a un argomento “caldo” nella pedagogia
contemporanea. Lo scorso anno era toccata all’uso della realtà virtuale
nell’insegnamento. Quest’anno è toccato alla neurodiversità —
“Understanding Neurodiversity and Universal Design: Classroom Strategies
That Work!”, per essere precisi.
Cos’è la neurodiversità?
La neurodiversità spiega lo sviluppo neurologico atipico
come una normale variazione del cervello umano, una forma alternativa
della biologia umana. Non come un handicap o una malattia. Il focus si
sposta dalla disabilità alla variazione. Alla diversità, appunto.
All’interno della neurodiversità vengono fatte rientrare condizioni come
la dislessia, l’autismo e il disturbo da deficit di attenzione e
iperattività (che qui chiamano ADHD).
Voi dite. Benissimo, ma cosa c’entra questo con l’insegnamento? Eh,
c’entra un sacco perché molti studenti che si dichiarano portatori di
queste condizioni, hanno diritto a una serie di agevolazioni durante i
corsi, come per esempio un note-taker che prende gli appunti per lui,
maggior tempo per svolgere compiti o lavori a casa, o durante all’esame
finale.
Questo vedere nell’atipicità neurologica di un soggetto una fonte di
diversità che non è necessariamente positiva o negativa, desiderabile o
indesiderabile, ha portato recentemente al cosiddetto “Universal
Design”, un approccio psico-pedagogico vòlto a valorizzare le diversità,
e a promuovere la costruzione di percorsi formativi accessibili al
maggior numero possibile di soggetti fin dall’inizio, senza bisogno di
adattamenti postumi.
Forse avrete sentito parlare di “Barrier-free Design”, “Design for all”,
“Inclusive design”, che sono tutti sinonimi per “Universal Design”.
Un esempio pratico. Vi sarà capitato, per tagliare qualcosa, di
impugnare le Fiskar, quelle forbici con l’anello destro più largo
rispetto al sinistro. L’anello più largo agevola l’uso a tutti, non solo
a chi ha problemi motori alle dita.
Questo trend sta trasformando il modo di pensare le diversità
individuali: è un orientamento di inclusione, dove le diversità vengono
intese non come uno svantaggio ma come individualità da valorizzare. E
si applica al design e all’architettura, non solo all’insegnamento.
Tutto questo malloppo d’informazioni, ce lo ha propinato un brillante
Justin Freedman, Assistant Professor nel dipartiemento di
Interdisciplinary and Inclusive Education della Glassboro University,
nonché ex studente affetto da AHDH, che si è presentato reggendo un sinking ear,
una di quelle inutili spirali colorate di plastica che andavano molto
di moda negli anni ‘90. L’ha tenuta in mano tutto il tempo. E mi è
sfuggito il perché.
Nell’ambito dell’insegnamento, tutto quel malloppo di cui sopra si
traduce nel tentativo di non far pesare al portatore di diversità il suo
essere portatore di diversità. Perché altrimenti si sentirà sempre
discriminato: Justin ci ha fatto notare che la maggior parte degli
studenti affetti da qualche disabilità non lo rivelano per vergogna e
timore di essere trattati in maniera diversa, e di attirare l’attenzione
su di sé.
E come si fa?, abbiamo chiesto un po’ tutti in coro a Justin. Come si fa a far pesare meno la diversità?
Justin ci ha detto che si fa aumentando la flessibilità, ed universalizzandola.
Per esempio, invece che accordare più giorni per un compito a casa solo allo studente neurologicamente diverso, perché non assegnare più giorni a tutti
gli studenti? Invece che concedere due ore di tempo per un esame, e due
ore e mezza per uno studente neurologicamente diverso, perché non
concedere due ore e mezza a tutti gli studenti?
Sono piccoli accorgimenti, ma che, a dire di Justin, funzionano.
Durante tutto il suo speech, io vivo un conflitto violento.
Il lato cinico di me mi fa guardare al concetto di “Neurodiversità” come
all’ennesima trovata (nuro)linguistica del politically correct.
L’estremo tentativo di esorcizzare la paura di un termine con un altro
termine — quando invece l’attenzione andrebbe spostata sulla paura,
che non dovrebbe esserci a priori, e allora, invece, andiamo ad
analizzare perché c’è quella paura, e facciamo in modo di
neutralizzarla.
Poi c’è il lato ottimista in me. Quello che capisce la necessità di dire
“diversamente abile” in luogo di “disabile”. E, in certa misura,
“operatore ecologico” anziché “spazzino”.
L’avanzamento sociale passa anche per il rispetto che si conclama e realizza attraverso la sofisticazione linguistica.
Ma in questo caso, il mio dilemma non è tanto attorno alle parole, quanto attorno al metodo. Cioè. Aboliamo le deadline? Basta scadenze? Torniamo al 30 politico?
Ed è proprio in quel momento, mentre mi sto arrovellando seduta al mio
tavolo — ci saranno una decina di tavoli rotondi stile Camelot — che
Justin apre il Q&A.
Tra la selva di mani che svettano in sala, eccone una svettare più alta e
slanciata di tutte, da un tavolo laggiù, sulla destra. La mano brandita
in aria sta sopra un cappello di paglia nocciola, a tesa larghissima.
Non alla Huckleberry Finn, ma quei cappelli che indossereste risalendo
il Nilo a bordo di una crociera per due, oppure camminando su una
copertina di una località di mare chiamata Vanity Fair.
Sotto la tesa del cappello spunta un viso afroamericano che
difficilmente supera i 25 anni. Una perfezione di stampo Naomi. Ma più
esile, e forse, più alta. L’avevo intravista quando è entrata in sala.
Un metro e ottanta, centimetro più centimetro meno, a cui vi prego di
aggiungerne altri 12 in forma di tacchi sottilissimi, montati su un paio
di decolleté leopardate che, avesse 25 anni in più, farebbero di lei
una coguar da manuale, ma che invece, con i sue 25 anni netti, fanno di
lei uno schianto nero.
Camicetta bianca, pantaloni aderenti, ma non volgari, e leggermente
sopra la caviglia, sì da mostrarla, la caviglia. Sa benissimo che
nascondere quello snodo celeste sarebbe come gettare un drappo sulla
Santa Teresa del Bernini.
Sotto il cappello, i capelli neri, fluenti, le arrivano fino
all’avanbraccio. Se non avessi l’empirica certezza di trovarmi
all’Ottavo piano del Dubrinsky Bulding, FIT, potrei dire di essere
capitata in quella località di mare che si stende, patinata, dietro il
cartello “Vanity Fair”.
Justin le dà la parola.
Lo schianto attende l’arrivo del microfono. E io sono pronta a vedere
uscir fuori dalle sue labbra tutti gli animali del giardino dell’Eden. E
raggi di sole, e rivi d’acqua dolce, e correnti oceaniche che si
trovano solo ventimila leghe sotto i mari.
Purtroppo la realtà raramente combacia con il libro della Genesi, o con Jules Verne.
Esordisce con “I am a Millennial”. E già lì, perde un po’ del suo
fascino. Forse perché lo dice con un tono fiero, come se indossasse quel
dato di fatto come un visone — legittimo, ma fastidioso. O forse perché
penso subito ai bimbiminkia. Justin Bieber, Selena Gomez. Kendall
Jenner.
“Io sono cresciuta con questo”, alza il suo Iphone, e fa di lui una maracas.
Lo schianto nero ci spiega, con una velocità da Intel Pentium, che lei,
lo scorso anno, ha passato un semestre d’inferno, a fare la cerbera con
gli studenti — lei non ha detto “cerbera”, ha detto “bitch”, ma io
ripulisco. Tutto il tempo ha controllare scadenze, a cercare di andare
incontro agli studenti, ma tenendo comunque il polso da professoressa.
Risultato? Disastro. Tutti frustrati. Lei, gli studenti, tutti.
Allora quest’anno si è detta, adesso cambio musica. E ne ha messa su una
molto simile a quella che piace tanto a Justin, e cha canta 100%
flessibilità. E qui prende a mimare un botta e risposta con uno studente
immaginario: non hai preparato la tesina? Ecche problema c’è? Me la
porti la settimana prossima.
Mezz’ora in più all’esame finale? Non c’è nemmeno bisogno di chiederla: ve ne do un’ora, in più, a tutti.
Risultato? Valutazioni degli studenti altissime. Allievi soddisfatti, lei soddisfatta. Tutti vissero felici e studenti.
Nel suo modo di porsi molto “you think I am pretty but in fact I am
pretty bad ass so you’d better not fu*k around with me bitch”, c’è molta
di quella saccenza, di quella tracotanza millennial che noi generazione
X così mal sopportiamo. Perché noi, in genere, siamo cresciuti con
l’idea che la cresta alzata potevano permettersela solo quelli non
toccati dalla Lehman Brothers.
Ma lo schianto nero, con tutta la sua irritante spavalderia, ha sollevato un punto importante. Dolente.
Allora, per praticare l’Universal Design, e per non mangiarci il fegato
appresso a studenti che fanno morire nonni e zii un imprecisato numero
di volte sperando di ottenere una proroga per la consegna di una tesina —
come se noi non conoscessimo i segreti del pluromicidio famigliare — lasciamo loro la più totale libertà. Freedom 2.0.
È così che si insegna nel 2019?
Io credo che un po’ di disciplina, a questa generazione di Millennial,
vada insegnata. Ma non tanto per romper loro le scatole. Ma per
prepararli a ciò che li aspetta là fuori.
Tuttavia, non mi piace fare la cerbera. Volevo dire la bitch.
Allora ho scovato questo sistema 100% psicologico per cui se gli
studenti se ne escono con una scusa tipica da studenti — decessi,
catastrofi, malattie, ogni sorta di calamità naturale — io agisco sulla
loro pische tenera tenera, e lavoro sul senso di colpa. In maniera molto
sottile e indiretta, si capisce. 😉
Per esempio, se uno studente mi scrive che purtroppo perderà la lezione
della presentazione orale perché deve accompagnare il padre dal
radiologo e il radiologo sta nel Queens e loro abitano a Staten Island,
quindi proprio non ce la fa con i tempi, io dico, oh mi dispiace, spero
che tuo padre non stia troppo male. Il fatto è che io tengo moltissimo
alle presentazioni orali: è il modo che avete di dimostrarmi la vostra
passione per la lingua… Accompagna pure tuo padre, e buone radiografie.
Quanto alla presentazione orale, ti consento, in via eccezionale, di
presentarla la settimana prossima.
In questo modo, il povero pulcino è costretto a fare la presentazione e a
presentarla da solo — senza il supporto psicologico del mal comune,
mezzo gaudio che si respira in classe quando assegni un compito di
questo tipo. Non può più giocarsi nessuna storia bislacca — perché una
passa, ma due, no, my buddy, no way.
E si maledice per quell’idiozia sulle radiografie nel Queens.
Quando ci provano una volta, non ci riprovano una seconda volta. Ci rimettono loro. E lo capiscono.
Ma se io adottassi il metodo dello schianto nero, “Sei assente per la
presentazione? È lo stesso, non importa”, probabilmente farei un piacere
allo studente nel qui e ora, ma un disservizio sul lungo periodo. E un
torto.
Poi ci sono altri tipi di Millennial. Quelli secchionissimi. I nerd, o
che si credono tali. Quelli con la scriminatura a destra, e i capelli
leccati da una parte, come usava per i bambini prodigio negli anni ’50.
Sono stata al Grolier Club, ieri, al Simposio sul bicentenario dalla
nascita di Walt Whitman, il famoso poeta di “Leaves of Grass”. Un
simposio di quelli di razza, con tanto di panelist fatti arrivare da
tutti gli angoli dell’America, e persino da Serbia e Austria. Un
simposio accompagnato persino da una mostra di preziosi memorabilia, e
che corona un mese di festeggiamenti per il poeta americano per
antonomasia, nato a New York, vissuto a Brooklyn e follemente innamorato
di Manhattan.
Ebbene, tra i panelist, spicca questo ragazzotto con quella scriminatura
a destra lì, e i capelli leccati, e quell’aria da so-tutto-e-di-più che
irriterebbe Madre Teresa. Persino il suo nome sa da primo della classe.
Blake Bronson-Bartlett — cosa speravano, i genitori, con quelle tre B
in fila? Di eguagliare Pier Paolo Pasolini? A volte i genitori sarebbero
da rinchiudere e i figli, da mandare in affido.
Insomma, questo Blake, dell’Università dell’Iowa, investe i suoi venti
minuti di talk — che equivalgono a venti minuti di nostra attenzione —
per parlarci dell’importanza della matita nella carriera poetica di Walt
Whitman. Non scherzo, tutto documentato: “Graphite’s Dirty Truth: The
Pencil in Whitman’s New York Poetry”.
Il suo discorso verteva su un punto scontato: Whitman, poeta del
movimento, del walk-through-the-city, ha trovato nella matita portatile
un’alleata preziosissima che gli ha permesso di annotare, cammin
facendo, tutte le annotazioni per cui è tanto famoso. Cosa che non
sarebbe stata possibile se fosse rimasto legato a inchiostro, penna e
calamaio della sua scrivania.
Cioè, tu, Blake, passi sette anni della tua vita per conquistarti un
PhD, e tutto quello che riesci a spremere fuori dalle tue meningi
ricoperte di capelli leccati è il ruolo della grafite negli scritti di
un poeta??
Ecco, i Millennial nel mondo dell’accademia possono essere questo. Nel
caso dello schianto nero, problemi risolti attraverso la strada più
breve, e spalleggiati, in questo, dall’esistenza di un ecosistema
pedagogico in cui gli studenti sono molto più temuti dei professori, e
in cui la political correctness sta confinando un paese in una prigione
linguistica. Oppure i nuovi scholars, le nuove menti che dovrebbero
trovare sempre nuove strade per leggere la letteratura, e che invece
credono di trovare dell’originalità in un astuccio pieno di grafite.
Forse ogni generazione ha le sue croci da portare. Noi ne abbiamo avute
molte. Mani Pulite, Berlusconi, “Non è la Rai”, il ciuffo fonato. Ora ci
tocca portare i Millennials. Che non sono cattivi o molesti. Solo, si
spacciano per grandi visionari perché ragionano in termini di start-up,
ma poi, a guardar bene, non vedono al di là del loro smart-phone.
Questa settimana sono andata al Quad a vedere “La caduta dell’Impero americano”, l’ultima fatica del canadese Dennis Arcand,
quello de “Le invasioni barbariche”, e de “Il declino dell’impero
americano”, che, con questo film, chiude la trilogia dando il colpo di
grazia all’Occidente.
Tutto gira attorno a Pierre-Paul, un 36enne fattorino, con un PhD in filosofia nel cassetto.
Durante una consegna si ritrova coinvolto in una rapina che finisce nel
sangue, ma senza nessun testimone. Pierre-Paul si ritrova con il
malloppo a pochi passi da lui: due borsoni pieni di contanti.
Dopo qualche esitazione, l’irreprensibile, fedina-penale-impeccabile
Pierre-Paul, decide di prendere le borse. E questo non è che il primo
pezzo del domino che, una volta spostato, farà crollare tutti gli altri
pezzi del domino, portando a una nuova inaspettata riconfigurazione
degli elementi in gioco, il tutto tra il criminale, il comico e il
surreale.
Ora Pierre-Paul è tecnicamente ricco, ma praticamente ancora povero:
deve trovare un esperto di riciclaggio per poter depositare il danaro
all’estero, e spenderlo. Si affida quindi a Sylvan, riciclatore navigato
e appena uscito di galera. Ma nessun film che si rispetti è tale se non
c’è una femme, Aspasia, prima fatale — escort d’alto bordo — e poi amoreuse — inevitabile l’innamoramento con Pierre-Paul.
Ma mentre Aspasia e Sylvan hanno i piedi ben radicati per terra e
ragionano in termini pratici, Pierre-Paul si ritrova spesso a
filosofeggiare sulla propria condizione di burattino nelle mani di una
società occidentale sempre più sfruttatrice e iniqua. Una società in cui
un fattorino guadagna di più di un docente universitario, e in cui la
vera intelligenza non è riconosciuta, ma è spesso bistratta. In una
società del genere, il candide Pierre-Paul decide di giocare
anche lui con quelle carte, rovesciandole, e creando un sistema che
freghi il Sistema e che gli permetta di far trionfare i valori in cui
crede: Pierre-Paul dà una mano come volontario in un centro per
senzatetto, e durante il corso del film è colto a dare l’elemosina ai
tanti homeless che vivono a Montreal, oppure a servire loro pasti caldi.
Quel denaro lo trasforma in una sorta di Robin Hood, che gli farà
trovare, a fine film, una sorta di equilibrio.
“La Caduta dell’Impero Americano” è un fuoco di fila di citazioni
filosofiche — Sartre, Heidegger, Wittgenstein, Socrate, solo per citarne
alcuni — di dialoghi raffinati e una trama di colpi bassi alla società
occidentale che fanno di Dennis Arcand, Dennis Arcand. Ma c’è anche
altro. I personaggi sono scritti molto bene. Sono rotondi, complessi:
spiccano, quindi, l’assenza del buono e del cattivo, e la presenza delle
figure che stanno nel mezzo, con i loro pregi, i loro limiti.
È una commedia molto divertente, ma anche un heist movie
(heist=rapina) sui generis in cui la rapina non è che un pretesto per
sparare a zero contro la società capitalistica che ha visto nell’America
il terreno ideale su cui prosperare. Ma ci sono anche i sentimenti, c’è
l’attualità, e c’è quel gusto di sopra-le-righe che è tipico della mano
di Arcand.
Bellissima la scena iniziale. Pierre-Paul seduto in una tavola calda con
quella che, di lì a poco, diventerà la sua ex. Pierre-Paul spiega alla
ragazza che il suo problema è l’intelligenza. Che i veri intelligenti
sono quelli che ce l’hanno più dura. Perché anche i grandi scrittori, o
scienziati, o filosofi, non erano troppo intelligenti. “Tutti gli uomini potenti sono degli stupidi è per questo che sono riusciti a salire al potere”, dice Pierre-Paul, serissimo, e il suo monologo, pur buffissimo, è, allo stesso tempo, d’una rara amarezza.
Se avete occasione, andate a vederlo. Riderete e penserete. Una ricetta che amiamo molto, da Monicelli in avanti.
E anche per oggi, Moviers, s’è pipponato a sufficienza.
Googlephoto oggi fa degli strani capricci, e non mi permette di
aggiornare il Frunyc IV 🙁 Allora rimanete sintonizzati per la prossima
settimana: troverete le foto della Italy Run 2019 di oggi, 5 miglia a
Central Park, e il vostro Board arrivato al 775esimo posto su 8.063 partecipanti: 12esima tra le 565 donne sue coetanee 😉
Ringraziamenti di cuore, e saluti, stasera, generazionalmente cinematografici.
Let’s Movie
The Board
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LET’S MOVIE 412 from NYC – commenta “NON-FICTION” (“Il gioco delle coppie”) di Olivier Assayas

Mark, Moviers,
ma come ho fatto a non saperlo, per quasi tre anni, da quando sono qui??
Quasi tre anni passati ignorando, nella più bifolca ignoranza, che
Samuel Langhorne Clemens, altrimenti noto come Mark Twain, visse un anno
della sua preziosa vita al numero 14 della Decima Strada, in pieno
Greenwich Village?
Non stiamo parlando del primo scribacchino che passa, eh. Un tale di
nome William Faulkner, che sulla mensola del caminetto, fra i vari
premi, teneva la targa del Nobel, sosteneva che Mark Twain fosse “il
primo scrittore americano”. Un altro tale, anche lui con la targa del
Nobel sopra il caminetto e sotto un fucile, accanto alla bottiglia di
brandy, di Mark e del suo capolavoro successivo a “Le avventure di Tom
Sawyer” diceva: “Tutta la letteratura americana moderna discende da un
libro di Mark Twain intitolato Huckleberry Finn”.
L’isolato della Decima Strada tra la Sesta e la Quinta Avenue — siamo a
due passi da Washington Square Park — è pieno di storia della
letteratura. Anche quello ignoravo. Scopro tutto giovedì, uno di quei
giorni in cui ti senti particolarmente benedetto a vivere a New York. Ma
nello stesso tempo maledetto.
Giovedì c’erano quattro eventi imperdibili, tutti oscenamente
accavallati l’uno sull’altro dalle 6 pm alle 9 pm. Una conferenza sulla
scrittrice Louise DeSalvo al Calandra Institute. L’inizio di “In
scena!”, un festival teatrale che porta il teatro italiano a New York,
la proiezione di “New Rose Hotel” al MoMA, alla presenza del regista
Abel Ferrara e dell’amatissimo attore Willem Defoe. Un reading con due
mostri sacri della letteratura contemporane, Edmund White e Colm Toibin,
alla Creative Writers House dell’NYU.
Tutto questo, ci tengo a precisarlo, gratis. Giusto per ricordare che
New York ha un animo filantropo che convive in maniera
straordinariamente easy con il suo coté capitalista.
Benedetti e maledetti, quindi. Una cuccagna, un mare di cultura e fun in
cui tuffarsi e da cui riemergere con quella sensazione d’ebbrezza che
solo l’apprendimento di qualcosa di nuovo t’infonde. Ma al contempo una
sciagura. La scelta dell’uno che elimina tutti gli altri. Darwinismo
allo stato puro. Non hai scelta: devi scegliere.
In queste situazioni, io cerco di resistere all’appeal di un grosso nome
— Abel Ferrara in conversazione con Willem Defoe, per esempio — e di
affidarmi piuttosto al sesto senso. Scarto a malincuore tutte le opzioni
e rimango con il reading dei mostri sacri. Per i mostri sacri, certo.
Ma anche perché, mentre controllo su Googlemaps il luogo preciso da
raggiungere, il numero 58 sulla Decima Strada, vedo che, a poche decine
di passi da lì, al numero 14, c’è la Mark Twain’s house.
Holy moly! La casa di Mark Twain??
Una volta fatta questa scoperta, le altre opzioni in agenda sono state spazzate vie.
Ho capito che se scopro qualcosa di sensazionale — la casa dove abitò
Mark Twain è indubbiamente una scoperta sensazionale — devo correre
quanto prima sul campo. Non posso rimandare. Data la sua infinitezza,
New York vieta il lusso della procrastinazione. Se devi visitare un
posto ma ti dici che lo visiterai un’altra volta perché qualcos’altro si
è frapposto tra te e lui, quel sito lì finirà nell’oblio. Sommerso
prima da quell’unico qualcos’altro, e poi da una quantità innumerevoli
di altri, che lo seppelliranno nel cimitero del Nonfatto.
Allora, visto che la casa di Mark Twain non può finire tra le tombe del
Nonfatto, decido per i mostri sacri, e scarto tutto il resto. Il MoMA
non se la prenderà: ho prenotato, il giorno seguente, un posto in prima
fila per “Pasolini”, il film di Abel Ferrara con Willem Defoe. Alla
presenza, sempre, dei due. 🙂
Mi avvio verso la mia destinazione con un po’ di anticipo. Così posso
gironzolare in zona Casa Twain con calma, prima di andare dai mostri
sacri.
La zona è molto molto bella. È la New York che amiamo. Le brownstones,
le porte ad arco spesse ed eleganti, nere notte, rosso carminio o verde
scuro. Signorili e senza scrostature. Quei sette-otto scalini che
portano al loro cospetto, che si chiamano con l’intraducibile stoop.
Le finestre dietro cui immagino musica concettuale, candele, libri, uno
scialle in cashmere sopra un paio di spalle sotto una testa che legge
libri ascoltando note incomprensibili ai più.
Gli alberi sono verdissimi. Più verde del verde. Forse per via di una
strana luce che si cela dietro alle nuvole. E i mattoni arancionissimi.
Più arancio dell’arancio. E anche questo, forse, sempre per via di
quella strana luce. Il cielo è coperto, quindi questa vividezza non
trova una spiegazione fotocredibile. Ma accetto di buon grado l’effetto
prodotto. È come passeggiare dentro un disegno appena colorato da un
bambino con dei pennarelli nuovissimi.
Prima di raggiungere il numero 14, mi fermo davanti al numero 18. Lì,
sul muro di un’elegante casa che, fosse a Londra, sarebbe in tutto e per
tutto Vittoriana, spicca un tondo di ceramica azzurra. M’informa che
Emma Lazarus (1849-1887) visse lì. “Poeta, saggista, e filantropa”.
Sotto, alcuni versi del suo sonetto più famoso…
Give me your tired, your poor,
Your huddled masses yearning to breathe free,
The wretched refuse of your teeming shore.
Send these, the homeless, tempest-tost to me,
I lift my lamp beside the golden door!
Questi versi sono incisi sul piedistallo della Statua della Libertà.
Ecco perché il sonetto è famoso. Lady Liberty non è una testimonial da poco.
Dopo aver presentato gli omaggi a Emma, proseguo il mio cammino. Fatico a mantenere un passo tranquillo,
che non dia nell’occhio. Fosse per me, correrei. E non solo perché lì
dentro ha abitato un genio, ma anche per dell’altro che, se un poco
pazientate, presto scoprirete. Tuttavia mi trattengo, m’impongo di fare
la flaneuse che da sempre aspiro a essere, e mai sarò.
Arrivo davanti a Casa Twain. La maggior parte dei comuni mortali farebbe
un sorrisetto, scatterebbe un selfie, e andrebbe avanti per la sua
strada. Io, che mortale lo sono di certo, ma comune non so di preciso,
mi piazzo lì, con un’espressione beata, e naturalmente beota. Anch’io
scatto delle foto, ma certo non includono me. L’obiettivo è tutto per il
luogo, e quello che contiene. La casa. Bella. Quattro piani, finestre,
un uscio interrato, inferiore al livello stradale. E poi la targa.
“In this house once lived Mark Twain (Samuel Langehorne Clemens), author of this beloved American classic The Adventures of Tom Sawyer.”
La vaghezza della targa dice molto più di quello che non dice, stimolando una serie di interrogativi da Simenon.
Perché il testo è così vago? Perché glissa sul fatto che Mark ci abitò
solo un anno? Perché non nomina quell’anno, fra il 1900 e il 1901, che
avrebbe permesso una miglior contestualizzazione dell’edificio e del
rapporto dello scrittore con esso?
Forse con “once lived/un tempo visse”, si mirava a ricreare uno stile
letterario e ricalcare — per tribuatare — la natura letteraria
dell’illustre inquilino?
La targa, inoltre, non riporta il secondo nome della casa.
The House of Death.
Ebbene sì.
Questa casa, che include i numeri civici 14 e il 16 della Decima Strada,
è stata ribattezzata così perché, sin dal momento in cui fu eretta,
negli anni ’50 dell’800, ha registrato qualcosa come ventidue decessi.
In circostanze misteriose o macabre.
Il New York Post vi ha dedicato un bell’articolo, nel 2012, che ho letto in metropolitana nel tragitto che mi porta sul posto.
A quanto pare, alcuni residenti, negli anni, hanno raccontato di aver
visto lo spettro di Mark Twain, vestito di bianco, aggirarsi al primo
piano. Nello specifico, negli anni ’30, una madre e una figlia
sostennero di aver visto lo scrittore in forma di fantasma, seduto
accanto alla finestra. Stando alla loro testimonianza, lo spettro
avrebbe detto: “My name is Clemens and I has a problem here I gotta settle”, per poi svanire.
Se avete un po’ di dimestichezza con l’inglese, sapete che “has” dovrebbe essere “have”, e che “gotta” è molto gergale.
Chi ha letto “Le avventure di Tom Sawyer” e “di Huckleberry Finn”, sa
benissimo che una delle peculiarità dei due romanzi è l’uso di un
linguaggio colloquiale, parlato, molto vivace, preso direttamente dalla
strada. Questo, fra gli altri, fu uno dei tratti che marcò il carattere
rivoluzionario dei due romanzi. Uno scrittore che scriveva come si
parlava. Non era mai successo prima.
Questo, è anche uno dei motivi che rendono la lettura dei due romanzi così spassosa.
Quando ho letto le parole del presunto spettro di Twain, ho sorriso,
molto compiaciuta: parla esattamente come Tom o Huck parlerebbero.
Spettro di Twain a parte, sempre negli anni ’30, una coppia, Jan Martell
e marito, affittarono l’ultimo piano della casa, un tempo quartiere
della servitù.
Da subito cominciarono ad avvertire delle presenze, unite a passi sulle
scale, fruscii sul collo, ondate di odore di marcio, mobili spostati
anche se nessuno dei due li spostava. La coppia fece ispezionare la casa
da un esperto di fenomeni paranormali, che avvertì qualcosa di funereo
sotto le assi del pavimento, la presenza di una donna vestita di bianco,
di un bambina con gli occhi azzurri e di un gatto grigio.
Siccome queste presenze non accennavano ad andarsene, fu la coppia a
farlo. A malincuore, immagino, era pur sempre il Greenwich Village —
oggi come oggi, potresti tranquillamente condividere la casa con il
fantasma di Jack Torrence, pur di vivere in quella strada…
Jan, però, scrisse un libro su quell’esperienza — “Spindrift”.
Il New York Post riporta anche le parole di un certo Dennis, un
inquilino che vive — o perlomeno viveva — al numero 16, quando
l’articolo fu scritto, nel 2012. Dennis ha preferito tacere il proprio
cognome: troppo l’imbarazzo di raccontare storie di fantasmi nel terzo
millennio.
Questo Dennis, musicista e appassionato di fotografia, dice di aver
visto spesso, con la coda dell’occhio, strane figure di donne muoversi
fra le stanze di casa. Una sera, mentre fotografava una ballerina nel
suo soggiorno, la ballerina vide una donna vestita di bianco, seguita da
un gatto, entrare nella stanza, e se la diede a gambe levate.
Dennis dice di aver trovato una copia di “Spindrift” per caso, da
Strand. Dice di credere al resoconto sulla casa infestata che Jan fece
nel testo. Ma dice anche di aver dovuto ricomprare il libro una decina
di volte: non si spiegava bene come, ma il libro continuava a sparire…
Il paranormale finisce dove il macabro comincia.
Al numero 14, proprio nella fetta di casa di Mark Twain, l’inquilino
Joel Steiberg, nel 1986, picchiò a morte la figlia adottiva di sei anni,
ridusse in fin di vita il figlio di due anni, e la moglie. Quando la
polizia arrivò, trovò una scena da film dell’orrore. La bambina morta in
bagno, accanto alla moglie intontita, e il bambino con una corda
attorno alla vita, legato al box, in un mare di sudicume.
Joel faceva l’avvocato. Come secondo lavoro, sniffava coca.
Dall’esterno, sembravano la famiglia perfetta.
Joel ha scontato sedici anni di galera.
Ora si dice viva ad Harlem.
Il nome “House of Death” non è proprio proprio fuori luogo, quindi.
Ma meglio non scriverlo sulla targa.
In realtà, tutto l’isolato è un po’ infestato.
Oltre al fantasma di Twain, si dice che quello di Emma Lazarus, la poeta
del sonnetto per Lady Liberty, si aggiri intorno a casa sua.
Inoltre al numero 17 visse, poco prima di morire, nientepopodimenoche
Edgar Allan Poe, che sul soprannaturale e l’occulto ci ha costruito una
carriera letteraria. Mentre abitava lì, presso un amico dottore,
corteggiò la di lui sorella tanto da chiederla in moglie. Lei — pazza!—
rifiutò la proposta di matrimonio.
Un minuto di silenzio per il cuore rotto di Edgar Allan.
Non ci fossero le date a smentirmi, sosterrei che Edgar scrisse “Il
cuore rivelatore” dopo aver visto il suo ridotto in frantumi.
Che il suo spettro si aggiri nei dintorni, è più o meno una bufala.
Tuttavia, resta il fatto che questo isolato sulla Decima Strada, fra la
Quinta e la Sesta, ospiti una carica letteraria e un viavai
ectoplasmatico notevoli.
Mi piace credere che il fascino di queste storie tocchi tutti, empiristi
convinti e votati ai logaritmi, oppure possibilisti, disposti ad aprire
la porta verso l’inspiegabile.
Io credo nell’esistenza di Tom Sawyer e Huck Finn. Credo in Madame
Bovary, Raskolnikov e Humbert Humbert. Credo, insomma, nella religione
della letteratura, che crea ciò che non è.
Credo, anche, ai racconti che avvolgono le brownstone in quell’isolato.
Che poi i fatti siano veri o presunti, che gli spettri popolino stanze e scale, non importa molto.
Dopo il tuffo nell’occulto, riemergo al talk dei mostri sacri. Si tratta
del lancio di un’antologia di saggi sull’opera di Edmund White,
presente anche lui all’incontro.
Ogni saggista legge parte del suo saggio. E alla fine Edmund legge qualche passaggio dal suo libro meno amato, “Charcoal”.
Romanziere, critico letterario, saggista, professore a Princeton, White è considerato il maggiore scrittore gay americano.
Tutti i saggisti che hanno contribuito alla raccolta sono gay.
L’editore è gay. Il pubblico in sala, al 99,99 è gay — lo 0,1% rimanente sono io.
Il mio corpo è lì, nella sala, ascolta saggi personali grondanti esperienze personali e tributi sperticati al mostro sacro.
La mia testa è là fuori, piazzata davanti al numero 14, e strizza l’occhio a una figura di bianco vestita.
Questa settimana sono stata al Walter Reade Theater a vedere “Non-fiction” di Olivier Assayas, che sarà tradotto in italiano con “Il gioco delle coppie”.
Assayas è il regista di “Sils Maria” e di “Personal Shopper” — il primo disdegnato quanto il secondo apprezzato.
Presentato all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, e al Sundance,
“Non-fiction” è una commedia satirica, molto parlata, molto francese,
molto cerebrale, molto raffinata, molto alto-borghese, molto
franco-intelligentia che inscena un upgrade del gioco delle coppie dove
le coppie sono lì per portare sul tavolo le loro defaillances ma
soprattutto, questioni con cui la contemporaneità si ritrova a
confrontarsi.
Alain — una bellezza che di così poderose non se ne vedevano da anni
(Gauillame Canet, segnatevelo) — fa l’editore in una prestigiosa casa
editrice — fate conto Adelphi — ed è sposato con Selena — la sempre
poderosamente bella e brava Juliette Binoche — attrice fra teatro e
serie tv, più serie tv recentemente.
Coppia solida, con reciproche corna.
Uno degli autori pubblicati da Alain è Leonard, uno scrittore
scarruffato e assai buffo, che traduce in letteratura le sue avventure
clandestine con donne famose — tutte per altro riconoscibili nei suoi
scritti — mentre la compagna Valerie, assistente di un politico, fa un
po’ spallucce e si affida al comandamento dei traditi: don’t ask, don’t tell.
Questi personaggi hanno tutti una doppia vita: Leonard ha una relazione
con Selena, Alain ha una relazione con Laure, giovane imprenditrice nel
campo dei nuovi media che ha il ruolo di digitalizzare la casa editrice
in cui lavora Alain.
Nelle immancabili cene che popolano le commedie francesi — come loro
nessuno mai — e anche “Non-fiction”, questa sofisticata borghesia
parigina si ritrova a dibattere — senza venirne a capo, ovviamente —
sulle grandi questioni che gravano sulle nostre spalle, nello specifico,
la relazione fra supporti tecnologici (tablet, smartphone, e-book) e
prodotti tradizionali (il libro cartaceo, la carta stampata), fra la
comunicazione ragionata e i 140 caratteri di un twit. Un fiume di
domande scorre fra le mani di questi parigini. Qual è il futuro del
libro, in una Francia in cui si legge sempre meno? L’e-book è davvero la
soluzione? Dati recenti, nota il film, direbbero di no. Molto meglio
l’audiolibro — ve l’avevo detto io! Ma che fine farà l’editoria?
Soprattutto, in un’era in cui tutto verrà digitalizzato e reso alla
portata di un click, che fine farà il diritto d’autore, e non solo per
quanto riguarda i libri, ma anche i film, la musica? Scrivere un blog
equivale a scrivere un articolo in un giornale? L’impegno è lo stesso?
La lingua la stessa?
Assayas fa sviscerare ai personaggi questi argomenti, e molti altri, in
un fuoco di fila di discorsi, contro-discorsi, cene a casa, pranzi al
ristorante, caffè al bar, grigliate al mare. Ogni occasione è buona per
innescare lo scambio dialettico. Il regista si diverte un mondo — e lo
vediamo! — a prendere in giro questi suoi personaggi, che siamo
senz’altro anche noi.
Per farci capire quanto ridicolo sia il chiacchiericcio, il nostro
sbrodolarci addosso con ogni modo e mezzo, soprattuto telematico, cita
“Luci d’inverno” di Bergman — conoscete? Un prete che ha perso la fede
predica in una chiesa vuota: il problema, però, non sta nella la chiesa
vuota, né tantomeno nel prete. Sta nel credere… E cita anche “Il
Gattopardo” di Lampedusa: “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna
che tutto cambi”. Insomma, sembra dirci il regista, anche se a sentire i
nerd di tutto il mondo pare che stiamo vivendo una rivoluzione
copernicana mai vista, non sta succedendo tutto sto granché. Non sta
capitando nulla di veramente nuovo, né in quest’epoca che riteniamo
tanto rutilante, né nelle vite dei personaggi. Certo, nelle loro
dinamiche di coppia, ci sono passi indietro, separazioni e
ricollocamenti, ma nessuna vera rottura.
È una festa dialettica, “Non-fiction”. Un gioco di rifrazioni. Leonard
fa della verità finzione, e la finzione è perfettamente riconoscibile —
come riconoscibili sono le persone a cui si ispira per i suoi
personaggi. Un po’ come succede oggi con i social network, Instagram,
facebook: vetrine in cui postiamo un’immagine di noi che nella maggior
parte dei casi non corrisponde al vero di ciò che siamo noi. Eppure
continuiamo con i like, anche se sappiamo benissimo che ciò che stiamo
laikando, è frutto di un photoshop, oppure l’ennesimo retwitting di un
twit originario partito chissà dove.
La parlantina che tanto piace al regista, non fa che riprodurre la
logorrea con cui vomitiamo noi stessi addosso agli altri attraverso i
tanti canali che internet e il 2.0 ci propongono.
Un film intelligente, per palati sottili, pieno di battute, situazioni e
gag buffissime che ingaggia il cervello e fa bene allo spirito. Certo,
con “Non-fiction” non dovete andare al cinema sperando di staccare la
mente. La mente vi andrà, piuttosto, in fiamme.
Approved!
E anche per oggi è tutto, my Moviers.
Frunyc IV aggiornato, ringraziamenti di cuore, e saluti, occultamente cinematografici.
Let’s Movie
The Board
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LET’S MOVIE 403 da NYC squarta “GREEN BOOK” di Peter Farrelly

Melissa, Moviers,
la incontro a La Colombe, un caffè che sta in Vandam Street, una via
abitata da Jean Claude e dalla sua cinematografia da strapazzo, almeno
nel mio immaginario.
Non è quella SoHo a cui state pensando quando sentite “SoHo”.
SoHo si sviluppa da Crosby Street sul lato est, fino al Pier 40
sull’Hudson, lato ovest, quindi non soltanto il fazzoletto di viuzze
lastricate d’oro che si concentra nel mezzo, ma anche quella parte
anonima che comprende strade anonime come Varick Street e Hudson Street,
e che avvicinano il quartiere al fiume. Non è un’area che frequento
molto, quindi l’occasione — un appuntamento in zona — e il mio arrivo
straordinariamente in anticipo mi permettono di fare quattro passi
nell’anonimato.
Di New York è buffa la tempistica. Puoi trovarti letteralmente nel cuore
di Manhattan — I mean, SoHo — e imbatterti in una rimessa abbandonata
dietro un cancello arrugginito che sfoggia pure un bigodino di filo
spinato in cima. Stile DDR. Puoi imbatterti in camion parcheggiati,
probabilmente dal 1970, e gabbiotti “Park Here” risalenti probabilmente
al secondo dopoguerra, quando il traffico newyorkese aveva ancora da
palesarsi in tutta la sua diossica maestosità.
Se camminate lungo Hudson Street, fino alla traversa di Canal Street,
c’è questo tipo di New York. Case di mattoni in cui i mattoni hanno
tappato anche le finestre. Il bordo della finestra si vede ancora, ma al
posto dell’aria, ci sono loro, i mattoni.
A me, quel tipo di vista, mette un ché di tristezza. Penso al sole
bandito dalla stanza — Sonne, raus. Alla fine delle infiltrazioni della
luce.
Penso sempre che la luce dovrebbe poter filtrare ovunque.
Ma su una parete, lì accanto, trovi anche un gigantesco murales
raffigurante un acrobata, colto mentre si srotola dal suo telo aereo giù
per tutta la facciata di un edificio — imparo in questo momento che “i
tessuti aerei” sono una vera e propria disciplina circense.
Un acrobata che si allena in pieno anonimato, lungo la verticalità di un
edificio: la bellezza trova il modo di filtrare anche qui.
Allora penso che la bellezza è persino più forte della luce: davanti a
una coltre di mattoni la luce non può nulla. La bellezza ci si sdraia
sopra.
Torno indietro a La Colombe — il mio anticipo è finito.
L’esotismo esercita ancora un fascino potente sui gestori dei locali:
New York è invasa da ristoranti, caffeterie, paninerie, pizzerie, ogni
sorta di -ie del dizionario della ristorazione con nomi
stranieri. Il francese e l’italiano sono tutt’ora garanzia di sogno.
Facciamo sognare il cliente, l’obbiettivo. Le Cirque, Le Monde, La
Colombe. Che poi il posto in sé non offra assolutamente nulla di
francofono non è importante. Tu stai già sognando Montmartre sulle note
de La vie en rose mentre lo dici, e quello, è l’importante.
La Colombe è la più classica delle cafeterie americano-britanniche.
Tavoli in legno dolce, di cui alcuni, piccoli piccoli, in vetrina.
Un’infinità di tipi di caffè possibili ordinabili, e tre tipi di tè — il
tè rientra nelle minoranze da bar.
Mi siedo in attesa di Melissa.
Mentre aspetto e mi guardo intorno, vedo una ragazza seduto a un
tavolinetto, uno di quelli con l’affaccio sulla vetrata e sull’esterno.
Lei è rivolta verso di me. Ha un Mac aperto davanti, e gli occhi puntati
sul cellulare. Si sta mettendo il burrocacao. Lo fa distrattaemente —
ha la testa altrove — eppure con una sensualità che le farebbe vincere
qualche premio, se un premio riconoscesse la sensualità di una ragazza
che si mette il burrocacao in un luogo pubblico.
Fra me e me dico che questa ragazza finirà nei miei scritti, da qualche parte, un giorno.
Per ora finisce qui in Lez Muvi. Ma questa è giusto la stanza d’attesa.
Tiro un sospiro di sollievo tutto mentale costatando che la noia è
bandita dai locali pubblici. Che c’è sempre qualcuno da guardare, e
dietro cui rovistare.
Ecco che arriva Melissa.
Melissa non è un’amica. È una che potrebbe farmi un colloquio, se
decidessi di mandare la mia candidatura per un certo posto di lavoro.
Questo incontro è un incontro “informale”, precisa. Ci tiene a
precisarlo, durante l’arco dell’incontro, nove-dieci, forse undici
volte.
Una tipa precisa, Melissa.
Dato che è una cosa non ufficiale, non possiamo parlare della futura
ipotetica posizione se non in termini vaghissimi. Né può chiedermi mie
specifiche abilità in materia.
Non so bene quale sia lo scopo di un incontro informale pre-candidatura
con tutti questi veti, ma chi sono io per negare a Melissa un’ora del
mio tempo, un’ora che mi permette anche di esplorare la New York anni
‘70 e incontrare sulla mia via la sensualità intorno a uno stick di
burrocacao?
Va bene allora Melissa, visto che di lavoro non si può parlare, parliamo di noi.
E io racconto, in breve la rivoluzione copernicana che ha stravolto
l’universo tolemaico in cui ho vissuto fino al 2016. Il mio arrivo a New
York. L’esperienza del visto. Trovare un lavoro. Cambiare casa.
Lasciare tutto e ripartire.
Quando racconto la mia storia, mi rendo conto che possa essere letta in
termini fastidiosamente eroici. Io credo non ci sia nulla di eroico. È
tutto abbastanza normale. Se un posto non va, cambi posto. Il resto, in
fondo, è logistica.
Ma non scordo mai di dire che New York è stata per me un’idea fissa per
un decennio, e se un’idea ti si fissa in testa per un decennio, be’,
allora qualcosa, a un certo punto, devi proprio farla.
Quando dico questo, vedo un’ombra passarle rapida sul viso; di lì a poco avrei capito perché.
Cerco di ridurre la mia parte al minimo. Voglio far parlare lei. Voglio
vedere chi si nasconde dietro a questa donna di mezza età, la ricrescita
prima dei capelli rossicci, tante piccole rughe su tutta la faccia, e
due occhi azzurri dietro due lenti sottili.
Non so se Melissa aspettasse un’immigrata italiana con una spiccata
curiosità per raccontare quanto orribili sono stati il 2017 e il 2018
per lei. Oppure se lo racconti a tutti. Di certo, si è sentita
sufficientemente a suo agio per parlare abbondantemente della sua vita
nel dettaglio.
Tanto ché ora so molto, di Melissa. Moltissimo. Vedete un po’.
Melissa non abita a New York, ma in un paese che lei stessa definisce
“boring and uneventful, houses, houses, just houses” alla perifieria di
Boston. Lavora da remoto, e viene a NY una volta ogni due mesi, o giù di
lì.
Le sarebbe tanto piaciuto trasferirsi a NY, anni fa, insieme al merito.
Ma i figli erano alle superiori. E come si fa a sradicare i figli dalle
superiore e trascinarli via?
Non lo so, Melissa. A quanto vedo non si fa.
Infatti, non si fa, quindi sono rimasti in periferia. Che comunque ha i
suoi aspetti positivi. Vita tranquilla, figli liberi di giocare fuori,
di andare in giro da soli. Ora però loro sono cresciuti e se ne sono
andati di casa. Lei continua a lavorare da remoto, e suo marito è fuori
casa dodici ore al giorno per il suo lavoro.
Alché Melissa, che ha dovuto uccidere il sogno di New York, ma che di
questo, per fortuna non è morta, ha trovato il modo di mettere una
pezza. Quindi sprizza orgoglio da tutte le rughe quando, dopo circa sei
minuti dal nostro incontro, mi informa che la scorsa estate lei e il
marito hanno comprato una seconda casa nel Maine. E quello è stato il loro salto nel buio, il loro leap of faith,
soprattutto per l’investimento economico, perché non sai mai da che
parte va il mercato e l’economia e se da un giorno all’altro ti ritrovi under the water, come nel 2008.
E via che prende a parlarmi della casa: disposta su piani diversi, il
terzo piano per i figli, perché adesso sono giovani e non apprezzano una
seconda casa nel Maine, ma quando invecchieranno, allora sì, allora sì
che capiranno…
Niente vista mare — a quella hanno dovuto rinunciare — ma ci sono gli
alberi, e anche quelli sono una bella vista, no? E poi il mare è a dieci
minuti a piedi, quindici dai, quindi non è male.
No, Melissa, non è affatto male.
Certo il suo capo, che anche abita in Maine, ha la vista sull’oceano… Ma
lei non si lamenta. Sono stati abbastanza fortunati da potersi
permettere la casa, grazie anche, e va detto, ai soldi che le ha
lasciato la madre.
I am sorry, Melissa.
La madre è venuta a mancare all’inizio del 2018.
È caduta. Il giorno stesso in cui è entrata in casa nuova, è caduta per terra, è entrata in coma, e non si è più svegliata.
Io sono un po’ confusa con tutte queste case. Come? Quale casa?
Melissa mi spiega che sua madre, nonostante l’età, il vizio dell’alcol e
una demenza senile galoppante, voleva a tutti i costi cambiare casa.
Allora, da donna volitiva e combattente, nonostante il vizio dell’alcol e
la demenza senile galoppante, aveva comprato una casa.
Il giorno stesso del trasferimento scivola per terra. E non si rialza più.
Dico a Melissa che la vita è proprio infame delle volte, si accanisce.
Se poi ci si mette anche la sfortuna, be’, quella è una cecchina, e se
ti punta, non ti molla finché non preme il grilletto.
Mi dispiace molto, ripeto. E le chiedo se la caduta fosse in qualche
modo causata dall’alcol — a volte non riesco proprio a dominare il lato
forense — e se bevesse da molto.
Melissa butta la testa indietro, alza gli occhi al cielo. “Oopf, since
when I was a child”, aggiunge. Però aggiunge anche che ha cercato per
tutta la vita di non farlo pesare, di nasconderlo.
Il che forse è pure peggio, secondo me. Ma vedo di non aggiungerlo.
Dalla madre alcolizzata, alla tragedia nella casa nuova di zecca, passiamo ai figli.
Melissa ha due figli grandi, entrambi fuori casa. Ma è di uno che non
vede l’ora di parlarmi. Di quello che si è sposato nell’estate del 2017,
e che l’ha stressata molto durante i preparativi del matrimonio.
“How am I supposed to know how to take care of a wedding?”.
Non lo so, Melissa.
Ma evidentemente, dopo il drama iniziale, tutto è andato liscio. Mi dice che il compagno del figlio è un great guy. Aggiunge anche che non era mai stata a un matrimonio di quel tipo — that kind of wedding
— e che è stata una cerimonia meravigliosa. I due, a quanto pare, si
completano: il figlio è più come il marito di lei, persona solida coi
piedi per terra, mentre il great guy, à più come lei, Melissa, più da
testa per aria. Ed è bene trovarsi e completarsi, no?
Sì, Melissa, certo.
Allora.
In mezz’ora di Melissa, ho scoperto che aveva un sogno nel cuore di nome
New York, ma che non ha avuto l’ardire di realizzare per via dei figli,
che certo non incolpa. Incolpa, invece, se stessa. Questa cosa non le è
ancora andata giù, lo vedi dal modo in cui si smarrisce rigirandosi la
tazza del tè in mano.
Tuttavia non è stata lì a rimuginare. Ha cercato di darsi una smossa. Si
è fatta trent’anni in periferia a Boston, vagheggiando il momento della
rivalsa, che è arrivata travestita da una casina nella periferia del
Maine, che certo, non è come la casa dei suoi sogni — niente ocean view —
ma va bene dai, e le permetterà di andarci nei weekend e in estate — e
com’è l’estate in Maine, Melissa? Corta e fredda, Sara — e anche di
ospitarci i figli, e insomma, di vivere questo nuovo inizio, dopo lo
strazio degli ultimi due anni appresso alla madre, incombenza che certo
si divideva con il fratello, ma un fratello di cui in realtà non si
poteva fidare al 100%, visto che la sera in cui la madre è scivolata,
proprio quella prima sera, lui, il fratello, aveva deciso di non
rimanere a tenerla d’occhio, mentre Melissa, che la osservava da un po’ e
da un po’ aveva capito che c’era qualcosa che non andava, lei, Melissa,
non l’avrebbe mai lasciata sola, e forse oggi, chissà, magari la madre
sarebbe ancora viva, ubriaca e demente, ma viva, e si godrebbe la casa
nuova di zecca, anche se questo non avrebbe permesso a lei di ereditare,
e comprarsi la sua casa nuova nel Maine.
Quindi alla fine forse tutto ha un senso, no?
Sì, Melissa, forse tutto ha un senso.
L’ottimismo degli americani è un fatto più complesso e meno beota di
quel che si pensi. Esce fuori da circostanze battute dalle sciagure,
come in questo caso. Invece di arroccarsi sul destino tragico della
madre, Melissa vi trova l’occasione del suo riscatto.
Certo è un punto di vista individualista.
Ma com’è, secondo voi, l’uomo occidentale?
Come siamo noi, davvero?
Prima di passare al film della settimana, che ha a che fare con la Notte degli Oscar, fatemi parlare della Notte degli Oscar.
A parte l’esultanza per “Roma”, che si è strameritato le statuette per
miglior fotografia, miglior film straniero e miglior regista a Cuaron. A
parte l’Oscar a Olivia Colman, miglior attrice in “La favorita” — per
quanto anche Glenn Close l’avrebbe meritato. Ho dissentito con talmente
tante premiazioni, che la mia serata nella sala cinematografica del Roxy
Hotel è passata tutta sulle note di “Whaaaat??”.
Per inciso, la sala cinematografica del Roxy Hotel, al momento, risulta
essere la migliore di New York City — ce ne sono ancora tante da vedere,
ma questa è un tesoro. Teatro con file decrescenti, poltroncine
pulitissime, sodissime, foderate di velluto rosso, moquette di colore
gestibile, sipario di velluto rosso in pendant. Atmosfera ’20. Se venite
in città, controllate la programmazione e concedetevi una serata al
Roxy Hotel Cinema 😉
Ma oltre la contrarietà di superficie per dei premi non vinti da film
che li avrebbero meritati — RBG, “Island of Dogs”, “The Ballad of Buster
Scruggs” —la delusione più cocente, quella proprio che mi è rimasta
attaccata addosso per 48 ore filate dopo la premiazione, con invariata
intensità, è stata causata da due Oscar.
Miglior attore protagonista a Rami Malek (il Freddie Mercury di
“Bohemian Rapsody”) e Miglior Film a “Green Book” di Peter Farrelly.
Quanto a Malek, io rimango della mia posizione. La sua interpretazione scimmiotta Freddie, non tende a
Freddie. Credo che il pubblico e l’Academy siano rimasti abbagliati dai
denti — di certo — dalle mossette, e da una vaghissima somiglianza nei
tratti del viso. Ma questi elementi non bastano, non dovrebbero bastare
per fare un’interpretazione.
E poi, un’altra considerazione. Io sono dell’opinione che un Oscar si
debba guadagnare. Cioè, parliamoci chiaro. Leonardo DiCaprio, per
portarsi a casa la benedetta statuetta da Best Leading Actor ha fatto
l’autistico in “Buon compleanno Mister Grape”, l’affogato nel mare
d’amore di “Titanic”, il wolf bastardissimo di Wall Street, per non
parlare di tutti i lavori con quelli sconosciuti di Scorsese, Spielberg,
Scott, Eastwood, Allen, Nolan, Luhrmann, Tarantino.
Per portarsi a casa la statuetta, Leonardo ha dormito dentro un
orso. Non metaforicamente. Letteralmente dentro un orso. Morto. Almeno
il lupo di Cappuccetto era vivo. L’orso di Leonardo era morto!
Glenn Close, 71 anni e cinquanta di carriera sulle spalle, si è vissuta
qualcosa come sette candidature, e sette statuette sfumate.
Quindi non è che tu, Rami Malek, dopo aver fatto una manciata di film tra cui spiccano tre — tre — “Una notte al museo”, arrivi, t’infili una dentiera, impari due mosse e ti porti a casa l’Oscar.
Ma il premio ancor più dolente è davvero quello di Miglior Film a “Green Book”.
Come forse avrete notato, non ci ho scritto sopra nessun pippone. Mi
sono guardata bene dall’andarlo a vedere, perché sin dal trailer, che
ero stata costretta a tollerare un paio di volte, mi aveva fatto venire
l’orticaria.
I film che mi fanno venire l’orticaria sono quelli che prendono una
tematica — in questo caso il razzismo — li intingono nell’umorismo, ci
costruiscono attorno delle vicende semplici semplici, di quelle con
sopra i cartelli lampeggianti “giusto” e “sbagliato”, così da renderti
tutto facile facile, e che ti fanno pensare solo alle risate. Quei film
programmati per ucciderti il pensiero.
“Green Book”, in questo, eccelle. Sono andata a vederlo questa settimana, per poterlo squartare come si conviene.
Non solo è divertente, ma è anche ben recitato: Viggo Mortensen è il
miglior italo-americano interpretato da un danese-americano della storia
cinematografica mondiale, e Maershala Ali è un talento a cui l’Oscar
come miglior attore non-protagonista fa giustizia — anche se io l’avrei
dato ad Adam Driver in “BlackKlansman”.
Il libro verde del titolo è una specie di guida che negli anni ‘60 i
neri potevano consultare per “viaggiare tranquilli”: vi trovavano
elencati tutti i motel, ristoranti, locali, “for colored”, in modo da
aggirare l’inaccessibilità di motel, ristoranti, locali, “for white
only”.
Partiamo dal genere. Ben definito, senza problemi di classificazione.
Commedia brillante abbinata a un road movie. Qualcuno si è azzardato ad
avvicinarla alla Commedia all’Italiana, pensando, magari a quel viaggio
di risate e tragedia che racconta il rapporto tra Vittorio Gassman e
Jean-Luc Trintignant ne “Il Sorpasso”.
Pazzi!
L’italoamericano canotta-chiazzata Tony Lip Vallelonga viene assunto
come autista personale del sofisticatissimo musicista afroamericano,
genio del piano, Don Shirley. Il suo compito è quello di accompagnarlo
in una tournée nel sud del paese, attraversando stati sedotti dal Ku
Klux Klan e abbandonati dalla ragione come Kentucky, Virginia, Alabama,
ecc.
I due non potrebbero essere più diversi: il bifolco e l’erudito, il
bianco e il nero. Eppure, guarda caso, durante il viaggio, viene fuori
che non sono poi così diversi, che il bifolco può aiutare l’erudito e
l’erudito il bifolco. Che il bianco, quando sei un italo-americano, non è
proprio così bianco, e che il nero, quando sei un artista di fama e
successo, non è poi così nero.
I due attraversano tutto il manuale delle classiche situazioni
discriminatorie: il ricco mecenate bianco che idolatra il talento di
Shirley ma che gli vieta l’uso del bagno padronale, indicandogli la
latrina in giardino. La serata nel locale di neri in cui Shirley suona
jazz facendo impazzire tutti. L’abuso di potere delle forze dell’ordine e
la telefonata dall’alto che risolverà la situazione.
Quanta prevedibilità.
La tournée si conclude con Shirley al volante che dà il cambio a un Tony
stanchissimo, in una corsa contro il tempo e la neve, per raggiungere
New York in tempo per il cenone della vigilia in casa Vallelonga, che
accoglierà a braccia aperte anche Shirley, altrimenti destinato a un
Natale in totale solitudine scroogiana nel suo attico in cima alla
Carnegie Hall.
“Green Book” ha diritto di esistere e di divertire le platee. Ma a mio
parere, non ha diritto di vincere l’Oscar come Miglior Film. Soprattutto
se paragonato a opere come “Roma”, “Black Panther”, BlackKlansman”, “La
Favorita” e persino “Vice”, che non ho amato molto personalmente, ma
che almeno cerca di far riflettere su una parte della storia molto
recente — operazione sempre molto molto difficile.
Se spogliate “Green Book” della comicità, vero asset del film per cui
diamo a Ferrelly quel che è di Farrelly — regista di “Scemo più scemo” e
“Tutti pazzi per Mary”, pellicole che, al tempo, mi fecero sbellicare —
se lo spogliamo del fun, ciò che ci rimane in mano, è preoccupante.
Il film mostra il razzismo come se fosse un problema rappresentabile, e
risolvibile, attraverso semplici incroci di componenti antitetiche, che
poi si dis-crociano durante il corso degli eventi. Il nero acculturato
diventa il nero solo e con crisi identitarie superabili con l’aiuto di
un vero amico al suo fianco, mentre il bianco testa di legno diventa il
bianco che apre gli occhi e capisce come va il mondo per gli altri da
sé. I poliziotti razzisti che discriminano Shirley perché nero e Tony
perché italo-americano — quindi un nero bianco — diventano il poliziotto
buono che soccorre la coppia durante la tormenta di neve e che permette
loro di continuare il viaggio.
Tutto è sistematico, matematico. L’ingiustizia è sempre seguita dalla
presa di coscienza dell’ingiustizia, e poi raddrizzata, spesso a suon di
botte — Tony è una specie di Bud Spencer che mena le mani per
proteggere il proprio padrone/amico genio — così come la mancanza di
cultura e di modi è sempre raddrizzata dalla conoscenza, e dalla
didattica — Shirley che obbliga Tony a recuperare un bicchiere che Tony
getta fuori dal finestrino, oppure Shirley che scrive le lettere d’amore
per la moglie di Tony al posto suo.
Questo andamento porta all’happy-ending più happy della storia, in una giornata che non è una giornata qualunque, ma Natale. I mean, Natale! A New York!
Frank Capra applaude dalla tomba il discepolo Farrelly.
E io, fraKamente, do di stomaco.
Per me, un’operazione del genere non è solo mediocre: è dannosa. Primo
perché dà del passato una visione distorta, assolutamente errata. Gli
anni ’60 negli Stati Uniti sono stati un decennio fra i più violenti
della storia, in cui gli scontri razziali negli Stati del Sud stavano
hanno raggiunto picchi di tensione altissima. Darne una versione così
edulcorata fa un torto alla Storia.
Secondo, perché il razzismo esce fuori come un fenomeno facilmente
visibile, classificabile, risolvibile. Cose che, lo sappiamo tutti, non
è, e non è mai stato.
È come insegnare ad andare in bici a un bambino e poi, d’un tratto, farlo salire su un’astronave e dirgli, ecco, guidala.
La bici è “Green Book”, il mondo l’astronave.
Ma datti una calmata, Board. Il cinema è anche intrattenimento.
Sì, vero, il cinema è anche intrattenimento. Ma ci si può intrattenere
anche parlando di questioni spinose. Prendete “Lui è tornato – Er is ist
wieder da”, la commedia surreale che immaginava un ipotetico ritorno di
Hitler. Insieme al razzismo, il nazismo è senza dubbio una delle
questioni più spinose con cui la nostra era ha a che fare. In quel film
ridevamo di gusto, e stavamo male alle stesso tempo.
In “Green Book” si ride e basta. Si esce con la testa vuota vuota, o
zeppa zeppa di false idee. È come rimpinzarsi di Big Mac: esci da
MacDonald’s con il pieno di grassi, ma zero sostanze veramente nutritive.
Per questo dico che è dannoso. Cerca di mostrare l’errore degli stereotipi, ma lo fa perpetrando quegli stereotipi.
Prendete per esempio l’insopportabile, trita rappresentazione
dell’italo-americanità nel film. Gli italo-americani sono sempre ripresi
a mangiare, o a parlare di mangiare — lo stesso Tony mangia in
continuazione in maniera animalesca. Sono sempre immischiati in amicizie
losche o lavoretti criminali, sono fissati con la famiglia, non sanno
parlare l’inglese. Tony è rozzo, volgare, portato al furto, ma di buon
cuore.
A questo punto, sono meglio i cinepanettoni, che non ambiscono a
insegnare o mostrare nulla, soprattutto un mondo che non è mai esistito.
“BlackKlansman” — ritorno agli Oscar — che invece mostra il razzismo in
tutta la sua complessità, e che radica il passato nel presente con
l’ultima scena sulla strage di Charlottesville, è onesto: ci manda per
strada con la testa piena di dubbi. Non ci fa girare in bici per 150
minuti e poi salire sull’astronave del mondo.
Ci fa entrare dentro l’astronave.
Questa statuetta, proprio questa statuetta, mi ha dimostrato che
l’appiattimento e la semplificazione non sono solo proposte e adottate,
ma sono anche premiate.
Per questo mi rode. Che siano proposte, va bene — free market — e che
siano adottate ci sta — free will — ma che siano premiate, no.
Non va bene.
E questo è il mio free thinking.
E su questo no affermativo, siamo arrivati in fondo, Moviers.
Frunyc IV aggiornato, ringraziamenti sentiti e saluti, negativamente cinematografici.
Let’s Movie
The Board
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LET’S MOVIE 290 propone IL PIANO DI MAGGIE, commenta SEGRETI DI FAMIGLIA e introduce LET’S MOVIE POP UP

IL PIANO DI MAGGIE
di Roberta Miller
USA 2016, ‘92
Lunedì / Monday 4
21:00 / 9 pm
Supercinema Vittoria / Viktor Viktoria
Mal di Mare Moviers,
Ecco, questo potrebbe essere l’unico aspetto un po’ negativo di quella meraviglia galleggiante che è (stata) the Floating Piers ― nell’immaginario che mi deriva dalla Bibbia, Gesù godeva di maggior stabilità sul lago di Tiberiade.
Del resto non potrebbe essere altrimenti. L’acqua è un animale. Se gli cammini sulla schiena, come puoi non sentirla muovere, sotto di te? E’ questo che sentite, Moviers, camminando sulle passerelle. Una creatura che respira viva, sotto di voi. 🙂
Ah diavolo d’un Christo! Che razza d’idea gli è venuta ed è riuscito a mettere in piedi ― ehm a sdraiare! Nonostante tutte le critiche che gli piovono addosso e da cui io vorrei proteggerlo con uno scudo bellico o termico, ma basta anche solo l’ombrello di Jene Kelly.
E guardate la scelta più geniale è stata quella della stoffa che ricopre le passerelle. Non è tesa, ma è lasciata volutamente abbondante, in modo che si creino delle pieghe, come quelle di un drappo grande adagiato su uno spazio più piccolo. L’effetto è quello della sabbia del deserto. E il colore. Oro da asciutta e albicocca da bagnata. Ora, immaginate di percorrere una strada di sabbia d’oro e albicocca con l’azzurro intorno, raggiungendo un’isoletta in mezzo al lago con una villa da favola sopra, altrimenti inarrivabili a piedi. È semplicemente una magia. Che poi è parte della ricerca della land art e dell’arte povera, che così tanto amo. Cavar fuori lo straordinario dall’ordinario.
E sapete una cosa? Mentre ero lì, un po’ instabile ma con un sorriso ebete stampato in faccia, davanti a me passa una barca, “Il Capitano”, una di quelle tipo veliero su cui non ti stupiresti di scorgere dei bucanieri e delle gambe di legno. E sul ponte sapete chi c’era? Lui, Christo… Sorvegliava il suo miracolo… 😉
The Floating Piers mi ha distratto per un giorno dal putiferio che sta succedendo in casa UK. E scusate se torno sull’argomento, ma da anglofila, anglofona, anglo, la questione mi tocca sul vivo.
Non riesco a non pensare alla “povera” Queen Elizabeth. È Queen Elizabeth ormai da 50 anni o giù di lì e credo ne abbia viste passare tante sotto i suoi regali occhi, comprese due nuore che le devono aver fatto girare molto le regali scatole. Adesso, arrivata al pensionamento ― prima o poi lo mollerà ‘sto scettro benedetto, si alzerà da ‘sto trono ― le scoppia nel Regno di casa una Brexit che lo fa letteralmente saltare per aria nella sua identità geopolitica di “Union”.
La regina si trova davanti a un quadro da Risiko e brivido. La Scozia e l’Irlanda non vedono l’ora di trovare il modo di metter su un Referendum per l’indipendenza che sognano sin dai tempi di William Wallace detto Braveheart e Michael Collins ― e ditemi se il cine non serve a imparare la storia :-). Il Galles, terra poverella, sta supplicando l’Unione Europea affinché non tagli i fondi di cui beneficia. Londra, con il suo nuovo sindaco molto multi-cultural, minaccia addirittura di trovare una forma di città-stato staccato dal Regno ― tipo San Marino, il Vaticano, Atlantide ― in modo da godere di una sua autonomia e rimanere nell’UE. Fra i Tory non sanno che pesci pigliare ― e scusate il gioco di parole animalesco. Immaginate tutte le imprecazioni che Elizabeth the Second avrà senz’altro gettato al cielo della sua camera da letto, la notte del Referendum ― così come i ricchi piangono, i regali imprecano eh. Dopo 400 anni di gloriosi ancorché sanguinosi successi colonialisti e Union Jack, ecco che questi qua mi fanno un casino della Stuarda e mi sfasciano il regno unito…
Onestamente non ha tutti i torti, la Regina. E l’UK non ci sta facendo una gran bella figura. Farange, Johnson, ma anche Cameron & Co. sono riusciti in un’impresa che ha del sensazionale, e che è entrata nel Guinness dei Primati prima che nella storia, alla voce “Come mettere il cuBo nelle pedate in ambito nazionale, internazionale, globale”.
A prescindere dai negoziati e dalla definizione dei nuovi rapporti fra UK e UE, ora l’UK si ritrova nel bel mezzo di un casinò royal colossale, con malesseri intestini che ricordano quelli del tredicesimo secolo. I ragazzi, fra un decennio, studieranno il 2016 come l’anno in cui l’UK fece il passo più lungo della Manica per starsene per conto suo.
Insomma, Dio salvi la Regina…dall’esaurimento nervoso…
E che fosse una settimana cinematograficamente storta, s’è capito da subito. Anche le 4/quattro persone ― io compresa ― che c’erano al cine martedì, l’hanno confermato. S’è tenuto un vertice informale con il Mastro in cui abbiamo convenuto che la desertificazione dei cine l’estate è un fenomeno contro il quale non c’è iniziativa né Board che tenga. E m’è dispiaciuto in modo particolare, visto che “Segreti di famiglia” è un film giusto. Giusto non nel senso paninaro del termine ― o forse anche in quello. Ma giusto nel senso di misurato, contenuto, nordico, che mette in scena un sacco di roba emotiva ma senza versare una lacrima. E questo, ormai lo sapete, ha un forte ascendente su di me: credo che televisione e web e barbari d’urso e di sorta siano sufficientemente efficienti nell’inseguire la sensation del cuore. Il cine deve ragionare tarandosi su altri valori, e non vuol dire tagliar fuori il cardio, vuol dire affiancarlo alla dura madre che ci pulsa in testa.
Questo ha fatto il regista Trier ― ho scoperto essere lontano cugino di Lars Von, quindi sì, genes matter ― ha scritto e diretto un film molto tosto e toccante ma senza scendere giù per la china “Alabama Monroe”…
Famiglia bene del New England. Isabelle è una fotoreporter di guerra. È sposata con un bel marito ― ex attore, ora insegnante ― ha due figli, Jonah, giovane e brillante professorino, nonché neopadre, e Cameron, teenager della tipologia lonely geek tutto videogiochi, cervello e inadeguatezza adolescenziale. Ah, una cosa: Isabelle non c’è più. È morta da tre anni, e non ha visto la nascita della nipotina, né l’inadeguatezza adolescenziale di Cameron. Un incidente stradale se l’è portata via. Ma scopriamo che il caso e i camion sulla carreggiata opposta o un capriolo in mezzo alla strada non c’entrano: è lei, che ha cercato la morte. Il film inizia nel momento in cui una mostra delle sue foto artistiche sta per essere allestita, e un articolo che rivela del suo suicidio pubblicato.
Quindi il film ricorre al flashback per farci conoscere la storia di questa famiglia. E si serve anche ― ed efficacemente ― di scene raccontate da punti di vista diversi a cui corrispondono la diversa percezione dei personaggi, e brevi filmati di scenari bellici ― i teatri lontani fotografati dall’obbiettivo di Isabelle ― e naturalmente delle foto stesse, e poi di video tratti dal web, sequenze di videogame e spezzoni dal diario di Cameron letti in voice-over dal ragazzo. Eppure tutti questi diversi mezzi espressivi non incasinano la storia: sono impiegati in maniera sapiente ed equilibrata. Non si è mai sopraffatti dal mezzo: recepiamo e godiamo del messaggio ― e taccia, per una volta, MacLuhan. E credo che per capire questa storia, che stilla dolore da ogni parte, ma che sceglie la via del silenzio per farlo filtrare e raggiungere lo spettatore, il titolo originale ne porti in sé la chiave di lettura. “Louder than bombs”, più forte delle bombe ― mi piacerebbe prendere quel criminale che ha proposto “Segreti di famiglia”, come si trattasse dell’ultima soap-opera made in Argentina. Cos’è più forte delle bombe? Il silenzio. Quello in cui questa famiglia alto-borghese è sepolta. Non un silenzio dettato dal “cosa direbbe la gente se si sapesse che lei si è suicidata”, bensì dal “dire fa troppo male, meglio tacere”.
E allora il padre, nel tentativo di comprendere l’incomprensibile figlio adolescente, non solo lo segue da lontano per strada ― so sweet! ― ma si spinge anche nel virtuale. In una delle scene più tenere del film ― che peraltro abbonda di non scontata tenerezza ― entra nel videogioco online a cui il figlio sta giocando, si costruisce un avatar, e lo segue anche lì.
Il silenzio è la protezione che un padre sceglie per proteggere il figlio da una notizia che potrebbe devastarlo, e che sta per essere rivelata e sbattuta in prima pagina di un giornale. Il silenzio è quello di una madre che non riesce a confessare alla sua famiglia il disagio che prova vivendo una vita in cui si sente ovunque fuori posto. Sì perché se è vero che non c’è un vero protagonista fra questi quattro bellissimi personaggi ― e bravissimi attori ― è pur vero che la vita di Isabelle è ricca di fascino, mistero e tristezza, e spicca un po’ sulle altre.
Attraverso i ricordi, i flashback, le foto, e alcuni suoi pensieri presi dal passato e sentiti fuoricampo, entriamo in contatto e ricostruiamo le cause della sua depressione: Isabelle vive un forte tormento. Sente la responsabilità del suo lavoro, il drive che la spinge nei territori di guerra a immortalare l’orrore, e al contempo si sente in colpa perché per fare tutto ciò è costretta a lasciare la famiglia, e a diventare un’estranea per i suoi figli. È in guerra, Isabelle, e non troppo paradossalmente finisce per trovare la pace nella pace eterna…
Decideste di recuperare il film, come mi auguro, ciò che vi salterà agli occhi è la sua completezza. L’obbiettivo di Trier non si concentra solo su Isabelle o su Cameron, i due personaggi apparentemente più fragili, ma guarda con la stessa attenzione anche gli altri due membri della famiglia, ugualmente alle prese con le loro debolezze. Il padre cerca di fare chiarezza nel passato della moglie, e allo stesso tempo di andare avanti con la sua vita da uomo, trovandosi una nuova compagna e vivendone i relativi problemi ― quando la compagna è l’insegnante di tuo figlio, i problemi sorgono sempre…
E Jonah, il figlio posato, quello che sembra avere tutto sotto controllo, maritino, professorino, daddy-daddy, in realtà si sente soffocare in quella vita e cerca di fuggirla in ogni modo: non riesce nemmeno a tornare a casa dalla moglie e dal pargolo e a metter fine alla visita al padre e al fratello.
Il film si chiude proprio su questa riuscitissima scena: il padre, che capisce questa difficoltà del figlio, prende la macchina, carica a bordo anche Cameron, e accompagna Jonah a casa. La bomba è scoppiata, il silenzio è stato infranto. Ora una nuova normalità può costituirsi, un nuovo dialogo.
Quindi rapporti coniugali, rapporti fra fratelli, rapporti genitoriali. Tutto spogliato da qualsiasi incursione nel melodramma, nella lacrima facile. Un film nordico, ma non freddo, sia chiaro. I momenti toccanti sono davvero davvero tanti. Cameron che decide di regalare alla ragazza per cui ha una cotta, il suo diario ― peraltro scritto benissimo. E la passeggiata che fanno insieme, lui e lei, all’alba, entrambi un po’ goffi nella loro inesperienza, ma teneri, anche, nel modo in cui intuiamo si raccontino ― il regista silenzia, discreto, il dialogo fra i due. E ancora il discorsetto del fratello maggiore che consiglia al minore “geek”, non mescolarti con la massa di cheerleaders e football champs che popolano la mediocrità: resisti ancora un paio d’anni. Come a dire, aspetta di uscire da questo microcosmo di ruoli, aspetta di uscire fuori nel mondo vero. La commozione che “Segreti di famiglia” suscita è sottile, e le corde che fa vibrare non smettono dopo un istante: continuano anche dopo che siete usciti dalla sala e continuano continuano, sottili….
E per questa settimana, dopo l’arrivederci al Mastro e buone vacanze e torna presto ti prego e oggi cominciano quaresima e lutto, viriamo su una commedia di quelle brillanti, eleganti, intelligenti
IL PIANO DI MAGGIE
di Roberta Miller
Roberta Miller è la figlia di Arthur Miller ― sì lui, nientepopodimeno. Ho sentito dire che è una scrittrice e regista molto brillante, con qualcosa di alleniano nel suo modo di rapportarsi al mondo. Poi ho una gran simpatia per l’attrice protagonista, Greta Gerwig ― l’avevo vista in un gran bel filmetto di Noah Baumbach, “Mistress America”. Poi c’è Ethan Hawke. Poi c’è Julianne Moore. Poi se volete saperlo, il film è passato con successo al Festival di Toronto nel 2015, al Sundance lo scorso gennaio e al 66° Festival di Berlino lo scorso febbraio…
Oro che cola, viste le programmazioni estive…
Oggi ho blaterato un sacco e su un sacco. Ma va così, in questi giorni. Tante cose da dire…
Anche questa settimana, come la scorsa, vi riporto nel Maelstrom una rassegna estiva di cine all’aperto, per fare concorrenza al Cinema in Cortile alle Crispi e come alternativa al Cinema Sotto le Stelle di Sardagna… Questa rassegna s’intitola “Azonzo”, e vi pregherei di prestare particolare attenzione al film del 19 luglio ― sono caduta dalla sedia quando l’ho visto sull’elenco… 🙂
E naturalmente l’arrivederci al Mastro, che chiude l’Astra domani, apre per noi la stagione di pena e stenti, e apre altresì LET’S MOVIE POP UP, la versione summer di Lez Muvi. 🙂 Funziona che Let’s Movie spunterà dalla calura estiva ogniqualvolta si presenti un film degno di essere proposto. In caso contrario, non possiamo fare altro che tacere e cercare altri svaghi, inclusi il petanque (!), la canasta e il trainspotting, un’attività collettiva che secondo me ha del potenziale, oltreché una storia di tutto rispetto ― origini nella Sicilia verista e trionfo post-Danny Boyle.
E infine, l’addio a un grande ribelle della cinematografia di tutti i tempi. Michael Ciminoci ha lasciato. E per tante malelingue ci ha lasciato solo con “Il cacciatore”. Io dico che anche nel caso in cui quello fosse stato il suo unico film degno di essere ricordato ― e questo è tutto da verificare ― va bene così. Se l’avete visto, concorderete con me.
La settimana scorsa se n’è andato anche Bud Spencer, con i cui cazzotti e fagioli al sugo siamo cresciuti, e pazienza se non aveva un diploma dell’Actors’ Studio. Apprendere la notizia è stato come assistere al volo nel buio dei ricordi perduti di Bing Bong, l’amico immaginario con le fattezze da elefantino in “Inside Out”…
Ora scappo via, prima che mi lynchiate… 😉 E no, tranquilli, non sparisco per ora…
Vi lascio questi innumerevoli ringraziamenti, e questi saluti, ondosamente cinematografici.
Let’s Movie
The Board
MOVIE-MAELSTROM – “This can be nothing else than the great whirlpool of the Movie-Maelstrom…” (E.A. Poe rivisitato dal B(o)ard)
“Azonzo – Cinque film e una deviazione per viaggiare attraverso gli Stati Uniti”, http://trento.impacthub.net/
Questo è il nome per esteso della rassegna organizzata da Impact Hub. I film sono proiettati il martedì, alle 9:30 pm, in Via Sanseverino 95, al costo di 5 Eurini ― e dalle 6:30 pm c’è pure l’aperitivo…
E save the date, il 19 luglio… “ANOMALISA”… 😉
IL PIANO DI MAGGIE: Greta Gerwig è Maggie Hardin, un’allegra e affidabile trentenne newyorkese, che lavora come insegnante. La vita di Maggie è pianificata, organizzata e calcolata. Maggie non ha molto successo in amore ma decide comunque che è arrivato il momento di avere un figlio. Da sola. Ma quando conosce John Harding, uno scrittore/antropologo in crisi, Maggie s’innamora per la prima volta, e così è costretta a modificare il suo piano di diventare mamma. a rendere tutto ancora più complicato c’è il fatto che John è infelicemente sposato con Georgette Nørgaard, una brillante professoressa universitaria danese. Mentre i suoi amici, gli eccentrici ed esilaranti Tony e Felicia, stanno a osservare sarcasticamente dalle retrovie, Maggie mette in atto un nuovo piano che la lancia in un ardito triangolo amoroso con John e Georgette, e così le loro vite s’intrecciano e si uniscono in modi inaspettati e divertenti. Maggie apprende in prima persona che a volte il destino dovrebbe essere lasciato indisturbato.
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LET’S MOVIE 288 propone NICE GUYS e commenta THE NEON DEMON

NICE GUYS
di Shane Black
USA, 2016, ‘98
Lunedì 20 / Monday 20
22:00 / 10 pm
Supercinema Vittoria / Viktor Victoria
Ingresso 5 Euri
Floating Fellows,
Avrei una sporta piena di questioni impellenti da riversare su questo tavolo domenicale. Una guardia giurata con del farneticante nel cervello, entra in un Seven-Eleven di Orlando e, insieme a birra e patatine, si compra anche fucile e pistola, e poi entra in un bar e realizza il sogno di tanti mentecatti omofobi terroristi. La moglie sapeva tutto e non ha detto niente.
Il candidato alle Presidenziali Donald Duck se la prende con la sbadataggine degli avventori del bar: se anche loro avessero avuto la loro brava Beretta con sé, le cose sarebbero andate diversamente. Certo Donald, armi pari, altrimenti che Far West è?
Poi naturalmente la beatificazione di un ex premier che si sottopone a un intervento, e la telecronaca minuto per minuto del pre, del durante e del post perché ormai tutto è un potenziale reality, anche un intervento di un ex premier come LUI, e i giornalisti dimenticano tutto e sbavano dietro il dettaglio morboso con la lingua penzoloni e la fregola a mille.
E poi ci sarebbe anche da parlare della Borsa che crolla davanti allo spettro Brexit, e il fenomeno per cui un’altra borsa ― la Birkin ― non crolla mai, ma mai mai, anzi, se n’è appena venduta una per 300.000 dollari. E io mi dico va bene il collezionismo, ma le liste d’attesa anche di sei anni e più per averne una, quelle, vanno bene? Dovrei ringraziare il superlusso che fa circolare i capitali, oppure fare l’etica utopica e boicottare in qualche modo Hermès?
Invece guardate, tengo tutto ben chiuso nella sporta e preferisco guardare dalle parti del bresciano, per la precisione Sulzano, sul lago d’Iseo, dove il land-artist Christo ― l’avrete sentito ― ha realizzato un’opera che ha del miracoloso. E lo dico sia per la quota sacra che l’artista si porta nel nome, sia per l’opera in sé, The Floating Piers, http://www.thefloatingpiers.
Christo ― quello che ha impacchettato il Reichstag a Berlino e la Porta Pinciana a Roma, per capirci ― ha posato 4,5 km di passerelle galleggianti sull’acqua del lago d’Iseo, collegando Sulzano, Monte Isola e l’Isola di San Paolo. L’ha ricoperto di un tessuto giallo zafferano ― zafferano dei pistilli, non di risotto ― e ha invitato tutti a provare la sensazione di camminare sulle acque. L’istallazione è stata inaugurata ieri e verrà smontata il 3 luglio, quindi abbiamo due settimane per ripetere l’esperienza del lago di Tiberiade.
Naturalmente i miei occhi sbrilluccicano tutti: quest’opera non è solo suggestiva in sé ― camminare sull’acqua equivale a volare ― ma dimostra quanto l’arte sia il vero ambito in cui investire ― basta start-up e information technology! Tutte le strutture ricettive della zona sono sold-out e si prevedono oltre 1 milione di visitatori ― con le solite “ricadute positive sul territorio”. Certo sarebbe stato molto fico che Christo avesse scelto il Lago di Garda ― anche per dimostrare che oltre la Notte di Fiaba ci sarebbe di più. Ma poco importa. Io non mi faccio toccare dalle polemiche ― si grida alla disorganizzazione ma le malelingue, si sa, sibilano sempre in questo genere di eventi ― e voglio assolutamente farmi quattro passi sull’oro e sull’acqua. E spero che anche voi non vi lasciate scappare l’occasione. Qui trovate tutte le info pratiche http://www.iseolake.info/it/
E vedete “The Neon Demon” cade a pennello, essendo un’opera d’arte…
Martedì temevo la solitudine di “Marco se n’è andato e non ritorna più”, e invece laVanilla e il D-Bridge si sono materializzati al cine molto prima della solita ritardataria me, e insieme abbiamo affrontato questo trip senza pari che è il film di Nicolas Winding Refn. Conoscendo il regista per “Drive”, avevo il sentore che la storia non sarebbe stata “la solita storia” e che le modalità con cui l’avrebbe raccontata si sarebbero parimenti discostate del già visto, già dato, già passato next, please. Ma certo ci sono livelli e livelli d’innovazione, e uno ci va cauto, si aspetta il 3-4% sul totale girato: il 96-98% ― il valore d’innovazione di “The Neon Demon” ― è una quota da capagira.
Io sono uscita dalla sala ― e ho i miei due Moviers per testimoni ― come se mi fossi appena fatta di qualche sostanza stupefacente. Stupefacente nel senso di magnifica, onirica, non psicotropa con deriva lisergica eh.
Jesse è uno spettacolo di sedicenne che lascia la Georgia ai suoi redneck e si trasferisce a Los Angeles, in cerca di fortuna nella moda. Se siete degli estimatori del cinema lynchiano, non faticherete a trovare una somiglianza con la Betty di Mulholland Drive, anche lei innocente che lascia la campagna per la Città degli Angeli con l’obbiettivo di sfondare a Hollywood. Ed entrambe finiscono dentro un viaggio da incubo in cui perderanno non solo l’innocenza…
Jesse ha qualcosa di speciale. “Una luce”, come dice una truccatrice lesbica con cui stringerà amicizia. È una bellezza autentica, che si distingue dalle bambole fatte, rifatte ― e strafatte ― che bazzicano il mondo del fashion. E di questa sua luce si accorgono tutti. Modelle, agenti, fotografi, stilisti, tutti.
Il film sviscera in maniera allegorica e profondamente articolata il percorso verso l’oblio e la distruzione a cui porta l’esaltazione/ossessione della bellezza in un ambiente come quello della moda. Jesse è oggetto d’invidia da parte delle modelle “mediocri” che le stanno intorno: tutte vogliono essere come lei, essere lei, avere quella luce pura che fa di lei una Birkin in mezzo a uno stuolo di Carpisa.
E proprio la luce è la chiave d’interpretazione e di accesso al senso del film. In un ambiente illuminato dall’artificialità ― quindi neon ― e riflettori e spotlight, la luce di Jesse che spicca sopra tutto, è concupita in maniera morbosa e criminale, ma è anche, e perversamente, fonte della rovina della stessa ragazza. Nel momento in cui lei si rende conto di esercitare questo immenso potere sugli altri, si trasforma. E nell’iconografia voltaica che il regista Refn sceglie, la luce azzurra di quel triangolo luminoso che Jesse incontra ― e che simboleggia, come dicevamo, l’artificialità di quel mondo ― si fa rossa, come il sangue. Sangue finto, come quello che la ricopre nel suo primo servizio fotografico in apertura al film, e sangue vero, come quello che scorrerà dal suo corpo e che abbevererà le wanna-be che sperano di essere come lei.
Eh già, perché il film, Moviers, nella seconda metà assume delle tinte horror che farebbero impazzire il caro D(i)ario Argento. Jesse fa troppa gola. E le mediocri, nel loro delirio di successfulness, credono che interiorizzandola, fagocitando una parte di lei ― sangue e occhi in modo particolare ― permetterebbe loro di essere lei. Pertanto la tolgono di mezzo.
In realtà, scopriranno e scopriremo che non è così facile, togliere di mezzo la bellezza genuina: diciamo che rimane indigesta ― se decidete di cibarvi di qualcuno, vedete di evitare i bulbi oculari: tendono a stare sullo stomaco… E “The Neon Demon” propone una conclusione/visione spietata e lucida sull’abuso contemporaneo dell’apparire. Alla fine è la bellezza finta, posticcia ― ovvero la modella mediocre ― che vince, realizza il servizio fotografico e occuperà le copertine.
Il film si chiude con una panoramica kubrickiana su una terra desolata e scabra, rimando tanto concreto quanto allegorico ed efficacissimo a un futuro di aridità: se coltiviamo l’oggi con questo tipo di credo/azioni, il domani che ci attende non può essere che questo: una landa brulla, priva di umanità, su cui non spunta nulla, se non un corpo finto e criminale come quello della modellaccia mediocre.
Ciò che lascia stupefatti, di questo film, è la totale originalità del linguaggio allegorico costruito dal regista. Tutto è molto evocato, più che detto esplicitamente. Eppure non ho trovato nulla di fumoso o poco chiaro. Tutto si lega in maniera coerente, assolutamente non didattico, prevedibile o didascalico.
Un esempio è il ricorso ad immagini che richiamano l’aggressività. Una sera Jesse, rincasando nel suo squallido motel di Pasadina, trova un giaguaro ad attenderla in camera. WTF ― che sta per What The Fu*k! ― esclamiamo noialtri spettatori. Checcifa un giaguaro in una camera da letto?! Non te l’aspetti.
Ecco, se fate attenzione, noterete che felini imbalsamati sono presenti in molti luoghi del film, così come presenti sono le immagini che rinviano al braccare, all’assalto. C’è una scena da pelle d’oca ― e qui l’influenza di Lynch è chiarissima ― in cui vedete delle unghie/artigli che spingono dall’interno della tappezzeria della camera, come se volessero bucarla e attentare a Jesse.
La bellezza è, ovviamente, centrale, ma si accompagna sempre a immagini volutamente ambigue e ambivalenti. La stessa Jesse non è l’angelo che immaginate. La bellezza in sé è come la natura, come la verità e l’etica ― è buona nell’in sé. Ma il potere che essa genera nel corpo di chi la possiede e la agisce, specie in un contesto che trae profitti ― enormi profitti ― dallo sfruttamento dell’apparire, fa letteralmente girare la testa al portatore di bellezza. E infatti Jesse passa da uno stato di inconsapevolezza a uno stato di consapevolezza e, come dicevamo, cambia. Cambia il suo atteggiamento nei confronti del tenero ragazzo che l’ha aiutata appena arrivata a Los Angeles, e le permette anche di comprendere ciò che le diceva la madre quando era piccola. “Sei pericolosa”, le diceva. E in effetti, i portatori di bellezza lo sono proprio per quel grande potere che si ritrovano per le mani. Jesse porta in sé il demone (daimon) della bellezza, e di converso le mediocri modelle che la invidiano sono delle vampire, letteralmente pronte a fare il pieno del suo sangue (la sua sostanza vitale) per poter vivere, esistere, essere visibili nel giorno dello showbiz, e non sparire al crepuscolo…
La riflessione su questo argomento è pertanto trattata in maniera composita e in tutta la sua contraddittorietà, e supera le già calcolate equazioni di bello=innocente=buono. La bellezza si lega qui a doppio filo con la morte e con le perversioni che le girano attorno. Non è un caso che l’amica truccatrice si chiuda a chiave nell’obitorio e approfitti di un cadavere di giovane donna. Refn è coraggioso anche in questo: sfida il tabù della necrofilia e fa vedere ciò che non si può vedere, sintetizzando in un’unica potente scena, bellezza perduta (=il corpo deturpato della morta), l’eros oltre il confine (il desiderio di un corpo privo di vita quando il corpo in vita è negato ― la notte precedente Jesse ha rifiutato le sue avances), la morte (materializzata sul lettino). Trovo che questa scena sia centrale, assolutamente necessaria per esprimere la visione che il regista ha di questa società: una società malata che pratica trasfert dalla mattina alla sera ― la truccatrice si rifa sul cadavere per compensare al rifiuto di Jesse ― e che è vittima senza speranza di ogni sorta di dipendenze. Dall’apparire al piacere, dalla ricchezza ostenta al botox. E c’è un giudizio, forte, su questo, da parte del regista ― finalmente uno che prende posizioni. Ma il suo non è uno sguardo beghino, né sensazionalistico o redentivo ― non c’è il giustizionalismo del giustiziere della notte, e non c’è la volontà di trovare delle soluzioni. C’è solo lo spietato, and again lucidissimo, stato dell’arte delle cose tradotto in un’allegoria che non sarà scalfita dal tempo. “The Neon Demon” è come un quadro di Hieronymus Bosch, oppure quei memento mori post-medievali, o i mystery plays del ‘400-500 in cui l’uomo veniva rappresentato a confronto con temi quali l’idea della morte, della solitudine, della caducità delle cose terrene, e nella lotta tra il bene e il male per il possesso dell’anima dell’uomo.
Di qui l’effetto ipnotico che il film emana dal primo all’ultimo minuto. Sei stregato da questa storia che, ti rendi conto, non parla semplicemente della bella campagnola che scappa dalla campagna ― la vita l’amore e le vacche ― arriva nella metropoli, fa fortuna e ne paga il prezzo. E rimani avvinto fino alla fine, legato da una specie d’incantesimo che ti tiene gli occhi incollati allo schermo, il desiderio e il timore di vedere come va a finire. Visto che questo racconto, in fondo, parla di noi molto più di quello che possiamo immaginare…
Oltre che essere un profondo conoscitore dei meccanismi scenici, Nicolas Winding Refn è anche un esteta. Lo si vede da come costruisce certe scene ― prendete quella del casting fotografico: una ventina di donne mozzafiato sedute in lingerie e tacchi mentre attendono il verdetto “you are in, no you are out” per lo shooting del servizio. Non c’è l’ombra della volgarità, ma non c’è nemmeno l’asettico virtuosismo di Sorrentino. Tutto è essenziale, lo spettatore lo sente, ed è questo che distingue Refn dal regista di “La grande bellezza”: l’assoluta necessità di quella scena di quella durata in quel momento, e non l’asservimento e il capo chino alla mera portata estetica di una scena che, lo sappiamo, infarciscono l’ultimo cinema sorrentiniano. La stessa immagine d’apertura, che poi è il primo servizio fotografico di Jesse, non è altro che la premonizione della fine che farà la ragazza: una bellezza sgozzata e sanguinante, un agnello sacrificale, il corpo scomposto su un divanetto ―così come sarà il suo sul fondo della piscina vuota dove le mediocri la getteranno ― e il viso perfetto, bellissimo, iperglitterato, da bimba e bambola.
Oltre a Lynch, “The Neon Demon” si avvicina anche alla cinematografia danese contemporanea, a cui Refn appartiene. C’è qualcosa che lega indissolubilmente il film a Nymphomaniac ― forse i risvolti molto brutti che il bello comporta. E senz’altro la capacità di stupire e provocare in maniera intelligente, nuova, non etichettabile, come fa sempre Von Trier.
In ultimo, l’effetto mesmerizzante è garantito anche da una riuscitissima musica ― del newyorkese Cliff Martinez ― tra lo psichedelico, l’elettronico e il tribale, con delle sonorità da preistoria contemporanea dove le 21enni sono considerate vecchie, e dove tutto sembra fondarsi su un insanabile ossimoro, un concetto espresso da un fotografo: “La bellezza non è l’unica cosa. È tutto”… Infatti la colonna sonora si è aggiudicata il Cannes Soundtrack Award”, premio alla migliore colonna sonora.
Anche il suo film precedente, “Drive”, si era avvalso di una colonna sonora azzeccata, e questo conferma la consapevolezza di Refn che l’aspetto visivo è fondamentale, ma non può prescindere da quello sonoro. E quanto a “Drive”, ritroverete in “The Neon Demon” lo stesso approccio di parlato scarno, lo stesso trattamento del tempo, che predilige lo slow-motion alle sveltine degli action movies che esauriscono il bello in due, tre scene madri e poi non fai che guardare l’orologio per fuggire dalla sala…
Quindi, se siete amanti spinti del cinema di qualità e volete imbarcarvi in un viaggio tra bellezza e paura, orrore e piacere, vi prego, VI PREGO, non perdetevi “The Neon Demon”. Credo sarà l’ultima prelibatezza prima del digiuno estivo.
E questa settimana un film che voglio vedere da un po’ e che propongo, anche, per esclusione
NICE GUYS
di Shane Black
Ora, io so che non sarà il film dell’anno. Perdipiù arrivo dal capolavoro “The Neon Demon”, figuratevi…
Però, ci sono molti però.
- Il film è stato presentato a Cannes ed è piaciuto persino a quei critici tignosi che alzano il nasino se un film dura meno di 4 ore e non ha almeno una tigre Tamil come regista e un nord-coreano come sceneggiatore.
- La coppia Crow-Gosling sembra funzionare molto bene e far ridere. Naturalmente Gosling è “quando la bellezza sposa il talento” ― peccato poi che abbia pure sposato Eva Mendez.
- Non scordiamo che una commedia non si vedeva in Let’s Movie sin dai tempi di Buster Keaton… Quindi forse, è ora di un po’ di entertainment 😉
- E poi, e ve lo confesso, ho avuto la sfortuna di leggere quattro righe sul film con Penelope Cruz che si contendeva il Let’s Movie della settimana ― “Ma ma – tutto andrà bene”. Ve le riporto per correttezza nel Maelstrom, così capirete anche voi che NON s’aveva da fare, e che un film del genere, il vegetarian Board, avrebbe finito per passarlo nel tritacarne della cucina lezmuviana…
E ora, dopo aver solitamente abusato del vostro tempo mi defilo, ma non prima di avervi detto che la settimana prossima lancerò una sorpresa di quelle, ma di quelle, che sette giorni di attesa sono più che doverosi… Stay tuned! 😉
E ora Maelstrom, riassunto ― solo per i dipendenti da riassunti ― ringraziamenti e saluti, oggi, flottantemente cinematografici.
Let’s Movie
The Board
MOVIE-MAELSTROM – “This can be nothing else than the great whirlpool of the Movie-Maelstrom…” (E.A. Poe rivisitato dal B(o)ard)
Sentite qua cos’è “Ma Ma – tutto andrà bene”… “Magda è una giovane madre coraggiosa e risoluta che si trova ad affrontare una delle sfide più difficili quando le viene diagnosticato un tumore al seno. Recentemente abbandonata dal marito, può però contare sull’affetto di Arturo, talent-scout del Real Madrid conosciuto per caso proprio nel giorno in cui le hanno comunicato la diagnosi. Il legame tra i due si rafforza sempre più e, proprio quando la salute di lei sembra peggiorare irrimediabilmente, si accende una luce di speranza nella meravigliosa occasione di una nuova maternità.”
Difficile farsi venire in mente un anello da aggiungere a una simile catena di disgrazie, vero? 🙁
No, in Let’s Movie non s’ha proprio da fare…
NICE GUYS: Nella Los Angeles degli anni ’70, libertina, stravagante e decisamente trendy, un investigatore privato, Holland March, e un detective senza scrupoli, Jackson Healy, si alleano per risolvere il caso di una ragazza scomparsa e la morte di una porno star che apparentemente non sembrerebbero correlate: scopriranno che un semplice omicidio nasconde il caso del secolo!
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