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Let’s Movie 405 from NYC – commenta “WOMAN AT WAR”/”LA DONNA ELETTRICA” di Benedikt Erlingsson

Fatemi fare Fellows,
qualche considerazione su ciò che sto osservando, qui e là fuori.
L’altro giorno ero in aula-professori all’FIT.
Lì ci trovate una ventina di postazioni computer, e poi un angolo
solotto con divano, libreria e un tavolo rotondo al quale i professori
leggono il giornale — su tablet, ovviamente — oppure si mangiano il
pranzo dalla schiscetta formato XL. Molti si portano frutta e verdura da
casa, non tutti sono carb-addicted, sfatiamo una leggenda
metropolitana. Altri però, si scofano takeaway indiano e pollo fritto.
Quindi le sorti lipidiche si riequilibrano.
Quando l’aria è impestata di chicken, sia esso tikka masala o Kentucky
fried, io mi faccio Beatrice e riparo nell’empireo inodore del mio
dipartimento, all’ottavo piano.
È bello sapere di avere sempre una via di fuga.
L’aula-professori non è una biblioteca, anche se spesso c’è un silenzio
bibliotecario. A volte persino biblico. Spesso, però c’è cicaleccio da
stanza ricreativa.
Io sono dibattutta. Tante volte, questo brusio di sottofondo, mi
disturba. Sono una supporter storica del silenzio quando lavoro, e non
fosse per l’evidente contraddizione in termini, lo tiferei con
entusiasmo da cheerleader — datemi una S, datemi una I, datemi una L…
Ma sono anche una curiosa patologica. Quando sento una conversazione in
sottofondo, mi ci aggrappo a quattro mani, lei zattera di passaggio, io
naufraga in attesa.
L’inglese poi mi spalleggia. In inglese c’è il verbo “to overhear”, che
significa sentire involontariamente, non necessariamente origliare —
ovvero “to eavesdrop” — che poi è quello che succede se sei in un posto
pubblico e delle bocche cominciano a proferire dei suoni comprensibili
dall’orecchio umano. È la stessa differenza tra “vedere” e “guardare”:
l’intenzione fa la differenza.
In italiano “origliare” spalanca sempre quello scenario di soggetto
nascosto dietro una tenda —Polonio padre di tutti i nascosti dietro le
tende del mondo, da “Amleto” in avanti — oppure da bicchiere appoggiato
alla porta.
“Sovrassentire” sarebbe un neologismo molto utile alla lingua italiana. Altroché petaloso.
Allora diciamo che qualche giorno fa, sovrassento una conversazione tra Margaret e un’altra professoressa.
Margaret insegna Textile
Development and Marketing BS, dove BS è sempre fonte di ilarità per me,
giacché, in gergo accademico, sta per Business Strategies, e in slang,
sta per Bullshits.
Se siete in un luogo pubblico e non volete scivolare nel anti-bonton, usate l’acronimo BS, e avrete intatta la fedina orale. 🙂
Margaret è americana, ma sembra in tutto e per tutto britannica. Capello
canuto e non curato, occhiale dalla montatura nera e spessa. Secchezza
delle carni e della pelle, probabilmente dovuta a troppe ore davanti al
computer.
Margaret, infatti, oltre a insegnare BS (!), è anche un asso con il
computer, e dà una mano al Centro — il vero nome dell’aula-professori,
già ve lo dissi, è Center for Excellence in Teaching, ma io mi rifiuto
di grindiloquire così per una stanza, foss’anche il quartier generale
della NASA. Margaret dà una mano tecnologica soprattutto a chi è alle
prime armi con Blackboard, la piattaforma che permette ai professori di
amministrarsi i propri corsi, interagendo con gli studenti, archiviando
la marea di voti che si somministrano durante il semestre, e di
uscirsene, come per magia, con la media, a fine corso, lasciando a voi
il compito di ritoccare qua e là, ma senza dovervi spaccare la testa con
punteggi e frazioni.
Lo scorso anno Margaret ha iniziato un intimidito Board alle gioie di
Blackboard. Tantoché, dopo la diffidenza iniziale, l’intimidito Board ci
ha preso gusto, e ora ama il programma di un amore fraterno.
Grazie al mini-training che mi impartì con santa pazienza, Margaret è
diventata per me una sorta di mitica figura nerdoide, del tutto simile a
quelle semi-divinità che possedevano membra umane ma che erano dotate
di facoltà soprannaturali. Ancora oggi, quando ho qualche dubbio, la
avvicino, glielo sussurro nell’orecchio, e lei mi sussurra la risposta
senza nemmeno il tempo di pensarci su. Come se avesse saputo la domanda
in anticipo e non aspettasse altro che il momento opportuno di
consegnarmi la risposta.
C’è senz’altro del soprannaturale in lei.
Allora qualche giorno fa, ecco Margaret insieme a un’altra prof. che non
conosco, e che non vedo in viso. Io sono con la faccia puntata sul mio
schermo e do le spalle al resto della stanza, e a loro due.
Margaret le racconta un episodio di cui è stata testimone in metropolitana.
Margaret sente questa ragazza afroamericana dire a un’amica: “These
white people are always so rude” riferendosi a un bianco che era sceso
dalla metro e l’aveva urtata, senza scusarsi.
Da brava newyorkese affetta dal morbo del politicamente corretto,
Margaret non si è azzardata a commentare. Ma ha riportato l’esempio come
esempio di razzismo al contrario.
La stigmatizzazione di una razza è fallata a priori, sia che la razza in
questione sia quella nera o quella bianca. Ciò che distingue, tuttavia,
i due casi, è la Storia. I neri portano sulle spalle secoli di
stigmatizzazioni, secoli di generalizzazioni, secoli di discriminazioni.
I bianchi, ci piaccia o meno ammetterlo, no. Questo fa una sostanziale differenza.
Prescindere dalla Storia è l’errore più macroscopico che la
contemporaneità sta perpretando ai danni di se stessa. Se la società si è
scavata la fossa con le sue stesse mani e ci sta finendo dentro, è
perché ha voltato le spalle a ciò che è stato.
Ecco quindi che l’episodio riportato da Margaret non è facilmente
risolvibile, istantaneamente liquidabile, come esempio di razzismo al
contrario, come penseresti sulle prime.
Siamo portati a reagire d’impulso alle situazioni, senza pensare a ciò
che incombe lì accanto. Per questo motivo, vivere in questo momento
storico, in questo paese, è un’esperienza tremendamente complessa: devi
ricordare a te stesso, in ogni singolo istante della giornata, in ogni
singolo posto in cui ti trovi, che non stai vivendo solo in questo adesso millennial, ma anche
nel ‘600 colonialista, nel ‘700 schiavista, nell’‘800 classista e nel
‘900 xenofobo. Questo è particolarmente vero in un paese
racially-sensitive come gli Stati Uniti, ma non esime gli altri paesi.
Infame paradosso, la coscienza storica, che indubbiamente ci azzavorra, è
l’unica che può liberarci dal commettere gli stessi errori commessi. Ma
al momento, non la vedo. Non vedo coscienza storica in nessun dove.
Margaret che riporta l’episodio in metropolitana come esempio di razzismo al contrario, ne è la prova.
Per mettere piede nella Storia, non ci vuole molto.
Giovedì mattina ho fatto il mio solito tratto di corsa. Sono arrivata
all’altezza della 154esima, sulla Amsterdam, e mi apprestavo a prendere
la 155esima, come da tragitto.
Quell’isolato, fra la 155esima e la 154esima, tra Amsterdam Avenue e St
Nicholas Avenue, è un trapezio molto grande, impiegate un bel po’ a
(per)correrlo. Arrivando da sud, ho notato una fila di persone — tutte
afroamericane — in colonna, in attesa. La colonna abbracciava
praticamente tutto l’isolato: lungo la 153esima, lungo la Amsterdam e
giù giù per tutta la 155esima.
Queste persone attendevano il proprio turno per ricevere del cibo che
veniva distribuito gratuitamente da un’associazione di volontariato. Non cibo caldo. In fondo alla 155esima, tre lunghi tavoli carichi di sacchi di patate, casse di mele e scatoloni di carote.
Queste 500 persone e più, armate di carretti e borse, aspettavano patate, mele e carote.
Nel 2019. A Manhattan.
Tutto ciò capita a Harlem, a un passo dal Bronx, nel punto in cui la
comunità afroamericana incontra quella latina. L’unica bianca in vista,
io, ovviamente.
Non capita dalla 59esima in giù.
Questo non è per fare del pietismo e strappar lacrime — Gavroche lo
lasciamo a Hugo, s’ils vous plait. Anche in Italia abbiamo associazioni
di volontariato che distribuiscono beni di prima necessità agli
immigrati. Niente di nuovo sotto il sole. Solo che queste 500 e più
persone sono americane. Abitano qui da sempre. Ma in qualche
modo, anche nel modo in cui la benificienza viene accordata, sono ancora
viste come (s)oggetti alieni, e come tali vengono trattati.
Ecco perché qui ci vuole un attimo a mettere un piede nella Storia.
Basta fare una corsa sulla 155esima, il giovedì mattina.
Quando poi ho fatto il percorso inverso, dirigendomi verso casa, la fila
non c’era più, e nemmeno i tavoli. C’era, al loro posto, un capannello
di persone che stava letteralmente prendendo d’assalto gli ultimi sacchi
di patate lasciati alla loro mercé, caricandoseli a spalle, oppure
riempiendo quante più borse di mele e carote possibile dalle casse e
dagli scatoloni rimasti.
Mi sono fermata un istante, per assistere alla scena, fingendo di armeggiare con il cellulare.
La foga nelle mani di queste persone, l’ansia di volersi accaparrare
quante più derrate potessero, mi ha parlato di un dopoguerra, di un
paese in carestia. Inserire questa vista all’interno della cartolina
“Manhattan 2019” è un’operazione che mi è costata fatica. Quel senso di
spossatezza che arriva nel ritrovarsi con un nulla di fatto dopo aver
tribolato a lungo.
Dico che abitiamo questo nostro tempo senza coscienza storica. Ma a
volte succede la perversione dell’opposto. La storia diventa una materia
da plasmare a seconda delle proprie convizioni. Non so quale dei due
fenomeni sia più pericoloso. Nel primo caso, siamo affetti da apatia.
Nel secondo, ci ritroviamo con episodi come la strage di venerdì a
Christchurch, in Nuova Zelanda, dove un “uomo qualunque”, inneggia a
personaggi storici europei fra cui Carlo Martello, il Doge Sebastiano
Venier, Marcantonio I Colonna o Marcantonio Bragadin, prendendoli e
piegandoli alla propria “causa”, leggittimandola: così come loro hanno
cercato di proteggere il proprio paese dal nemico
berbero/turco/arabo/ottomano, così noi dobbiamo cercare di proteggere il
nostro paese e la nostra società dal nemico musulmano.
Mi sono presa la briga di leggere il manifesto che quell’uomo qualunque
ha scritto, una specie di farneticante, egocentrata, ma diabolicamente
lucida, intervista che rivolge a se stesso. Tra tutte le risposte che
elenca — e che so essere condivise da milioni di bianchi al mondo — alla
domanda “From where did you receive/research/develop your beliefs?”,
lui risponde così: “The internet, of course. You will not find the truth anywhere else.”
Riporto questo non per demonizzare internet. Il
mezzo in sé non c’entra. Ma la tendenza diffusa a mitizzarlo sì,
c’entra. Il web è luogo pieno di conoscenza e saperi, ma anche di tanta,
tantissima spazzatura, strafalcioni, pressapochismo e grossolanità
intellettuale; considerarlo come fonte suprema di verità, porta ad
altrettante ipersemplificazioni della realtà, e visioni binarie della
società — tipo “gli immigranti invasori da cui gli invasi bianchi devono
difendersi così come hanno fatto illustri eroi del passato”…
È folle, ma stiamo assistendo a un fenomeno di inversa proporzionalità
tra mezzo e contenuto: più la società si complica, più il mezzo si
semplifica — vedi l’accessibilità alle informazioni e la facilità con
cui vengono diffuse.
Chissà che ne direbbe McLuhan.
Vi chiedo. La stessa pubblicazione di quel manifesto, che è tutt’ora disponibile online, è necessaria?
Qual è l’effetto sulle menti tenere dei ragazzi, o quelle psicopatiche dei suprematisti?
So bene di star camminando su un terreno minato qui: quello della
libertà di parola, che qui in America è protetta dal Primo Emendamento
della Costituzione. Vuol dire che se uno, un bel mattino di sole
svasticato, si alza e dopo il suo stretching mattutino da gioventù
ariana, decide di decantare i benefici del neo-nazismo in pieno Central
Park, può farlo. E non è perseguibile, perché è protetto da
quell’emendamento. E nessuno lo toccherà mai, quell’emendamento — non
c’è Corte Suprema che tenga — perché è il Primo, è il pilastro della
Costituzione e del credo americano. Sarebbe come rivestire di candolotti
la Statua della Libertà e farla brillare in mezzo alla Hudson Bay.
Eppure lo capiamo tutti che dare libero sfogo e circolazione a idea
malate fa solo danno. Ingenera idee simili, ispira simili menti.
Io non mi stancherò mai di dire che il semplicismo incoraggiato dai
social media, in cui tutti ci ergiamo a so-tutto di tutto e in cui
troviamo in internet la fonte unica del nostro sapere, ha contribuito ad
alimentare questo tipo di approccio. Quello, e la diffusione di
messaggi che violano il linguaggio, che usano termini e giudizi
impropri, e che esprimono idee grondanti suprematismo bianco, e razze di
serie A contro razze di serie B.
Cito chi immaginate,
“Why are we having all these people from shithole countries come here? We should have more people from great European countries, like Norway”.
“When Mexico sends its people, They’re sending people that have lots of
problems, and they’re bringing those problems with them. They’re
bringing drugs. They’re bringing crime. They’re rapists. And some, I assume, are good people.”
In un’era di memoria cache come la nostra, le parole restano
più che mai. Circolano in rete, ricircolano nella mente delle persone. E
quando sono gettate al vento mediatico dal Presidente degli Stati Uniti
attraverso tweet giornalieri, possono agilmente arrivare in Nuova
Zelanda, piantarsi in un territorio già portato al fanatismo, e lì
sbocciare in eventi tragici, come quello di venerdì.
Per questo, a mio avviso, il più grande danno che Trump sta facendo al
suo paese e al mondo — tra tutti i danni che sta facendo — è quello
della violazione della parola.
Una cannunccia di plastica impiega 500 anni a degradarsi completamente in mare.
Quanti anni impiegherà una lingua a rimettersi dalle violazioni subite, dagli abomini con cui il verbo è stato impresso?
Su queasta domanda dalla risposta dolorosa, vi dico che questa settimana sono stata all’IFC Center a vedere “Woman at War”, tradotto impropriamente in italiano con “La donna elettrica”, del regista islandese Benedikt Erlingsson.
Presentato nella sezione Semaine de la critique al Festival di
Cannes 2018, premiato dal Parlamento Europeo con il Lux Prize e
selezionato per rappresentare l’Islanda agli Oscar 2020, “Woman at War” è
un divertissement ambientalista di rara goduria.
Il film si apre con una donna che manomette i fili della corrente
elettrica per impedire così agli impianti di una multinazionale che si
occupa dell’estrazione di risorse minerarie nella zona, di proseguire a
sfruttare la sua terra d’Islanda.
Halla è un’eroina, una ribelle, un’attivista, i cui eroi sono Ghandi e
Mandela — niente sangue. Una donchisciotte, o meglio, una eco-Robin
Hood, che si batte contro il capitalismo cattivo armata di arco e
frecce. Ma per tutti, Halla è una tranquilla cinquantenne single che
dirige un coro in una piccola cittadina in mezzo alle lande islandesi.
Visto che il braccio di ferro con la multinazionale non accenna a
fermarsi, Halla decide di mettere a segno un colpo definitivo: far
saltare un’intera torre dell’elettricità, con tanto di plastico e
necessaire per esplosioni.
Ma il destino, che non bada molto al tempismo — o forse che ci bada
benissimo — le avvera un sogno che aveva sognato quattro anni prima.
Quattro anni prima, Halla aveva depositato tutti documenti per
l’adozione di un bambino. Ma niente di fatto. Halla si era lasciata la
storia alle spalle, ma proprio nel momento in cui sta per superare la
linea, ovvero commettere un crimine dai rischi molto alti, ecco che le
arriva la notizia: Halla, abbiamo Nika, una bambina ucraina, pronta per
te. Devi solo andare in Ucraina a prenderla.
Cosa fare? Halla non rinuncia alla causa, ma vedremo, non rinuncerà
nemmeno alla maternità. L’aiuterà la sorella gemella, sua fotocopia dal
punto di vista fisico, tanto quanto il suo opposto nello stile e
filosofia di vita: prega, medita e crede nella “goccia che scava la
pietra” — approccio da pazienza monaci Sadhu — mentre Halla, l’abbiamo
visto, è una donna del fare, lotta, si sporca le mani, scende in campo —
letteralmente — e provoca danni, pur di cambiare il mondo.
Il bello è che, in qualche modo, Halla si trae d’impiccio ogni volta,
vuoi perché baciata dalla fortuna, vuoi perché aiutata inconsapevolmente
da un povero ciclista spagnolo che funge — molto comicamente — da
parafulmine narrativo, attirando su di sé tutte le sventure che
dovrebbero capitare a lei.
Ma alla fine, quando tutto sembra perduto, e lei ormai dietro le sbarre,
ecco un twist, uno scambio di persone tutto shakespeariano, che
permette ad Halla di andare da Nika in Ucraina.
Applausi al regista per aver messo insieme una storia ambientalista di
pasta femminista, senza per questo cadere nei facili moralismi, oppure
nella raffigurazione dell’eroina alla Gal Gadot e alla sua Wonderwoman
di leonardesca perfezione. Halla è una donna di mezza età, comune
mortale, con la cellulite e i capelli crespi. Eppure con dei principi a
cui non vuole rinunciare, anche se mettono a repentaglio la sua libertà.
“Woman at War” si serve anche di momenti di alienante spasso: la colonna
sonora è intradiegetica, ovvero, suonata dal vivo durante lo scorrere
degli eventi — e il farsi del film — da un trio di musicisti folk e da
un terzetto di cantanti ucraine, che spuntano improvvisamente nel bel
mezzo delle scene, e rappresentano, forse un po’, la coscienza, in
chiave musicale, di Halla.
L’effetto è straniante, grottesco, surreale, divertentissimo. Abolire
l’extradiegetico e mescolare così le carte in tavola si rivela una mossa
vincente del regista, che, con un’idea piccola e geniale, si porta a
casa lo stupore e l’ilarità del pubblico.
Lontanissimo dall’essere un film a tema, o moraleggiante, “Woman at War”
ti fa riflettere sull’interventismo — fino a che piunto spingersi? — e
sulla responsabilità che abbiano nei confronti delle generazioni future,
incarnate, nella storia, dalla piccola Nika.
La sequenza finale ci porta in una strada ucraina allagata da una
pioggia monsonica — riferimento non troppo velato agli effetti del
global warming — e Halla, che trova il modo di “salvare” Nika. Perché
Halla è una donna ed è una mamma, e le mamme, come ci aveva ricordato la
sorella gemella, citando la loro stessa madre, fanno questo: “trovano
le soluzioni”.
La scena è molto suggestiva: la strada smottata e le persone che guadano
nell’acqua, con le valige issate sopra la testa. Omuncoli-formiche che
causano il proprio male e si auto-condannano a viverne le conseguenze…
So che il film era dal Mastro all’Astra, quindi, se c’è ancora, andate assolutamente a vederlo!
E anche stasera s’è fatta una certa. Vi lascio ai vostri pensieri… Io capitolo ai miei.
Frunyc IV sempre aggiornato, ringraziamenti vivissimi, e saluti, permessivamente cinematografici.
Let’s Movie
The Board
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LET’S MOVIE 399 da NYC commenta “ARCTIC” di Joe Penna

Freddo, Fellows,
evitare di parlarne sarebbe come ignorare l’elefante nella stanza, che è
un detto molto popolare qui per indicare una questione ingombrante di
cui però si vorrrebbe far finta di niente — non riesco a dire, in tutta
onestà, se la indichi anche in italiano, oppure se l’italiano si limiti
all’elefante nella cristalleria, e io stia sovrapponendo pachidermi
metaforici.
So che in Italia l’ondata di gelo che ha spazzato gli USA è stata
descritta con tutto l’allarmismo di cui solo Studio Aperto è capace — ho
ricevuto molti messaggi allarmati in questi giorni. Ma va detto che la
situazione è stata davvero allarmante. Più che altro nell’upper Midwest.
Quando ero stata a Chicago, nel giugno del 2014, avevo incontrato una
temperatura tutt’altro che estiva. Mi ero detta, se lo zefiro è così
sbifido a giugno, figuriamoci cosa dev’essere l’inverno… E infatti,
figuriamocelo.
I
locals mi avevano spiegato che il vero problema è il lago Michigan che
permette al vento di scaraventarsi contro la città direttamente
dall’Antartico ―il Canada purtroppo non aiuta, con quella carestia di
montagne che si ritrova. Allora, da dicembre a febbraio i poveri
abitanti si infilano tre strati di vestiti e cronometrano il tempo in
cui rimangono fuori casa.
Credo di avervi già detto che lì vale la regola dei 18 secondi:
l’essere umano non vestito con i tre strati resiste 18 secondi. Se si
sfidano i 18 secondi, non si vince nessun premio. Si perde, conoscenza.
Ma potete contare sui cops che fanno la ronda per assicurarsi che gli
abitanti non svengano mentre sono per strada.
Quando una commessa mi aveva spiegato questa pratica, io, cretinetti che
sono, avevo riso — 3 strati, 18 secondi, svenimenti e poliziotti buoni?
Ma cos’è? E.R. incontra i Chips??
Ricordo perfettamente il negozio in cui ero, e il viso di lei farsi serissimo davanti alla mia leggerezza.
“I am serious”, ricordo che ribadì.
Ed era proprio serious.
Quindi sì, a Chicago il freddo è una faccenda seria. Sarà forse per
questo che la stazza di tanti abitanti è così adiposa: stabilità contro
il vento e uno strato protettivo aggiuntivo contro i rigori invernali.
Non ho mai visto in vita mia persone così mastodontiche come quel giugno
a Chicago.
Ma non si tratta solo di Chicago, che se avete modo, andateci — in piena
estate — perché merita tutti i passi che i vostri piedi avranno in
cuore di percorrere, vista l’estensione che la rende sorella di Los
Angeles.
Di questi giorni polari, mi è rimasta impressa la storia di Ali Gombo, un ventiduenne di Rochester, Minnesota.
Ali torna a casa alle 2 e mezza del mattino, dopo una serata al pub con
gli amici. Non trova le chiavi di casa, allora batte sulla finestra per
svegliare la sorella, farsi aprire, come fa di solito quando scorda le
chiavi.
Ma sono le due e mezza di notte. C’è vento forte. La sorella dorme, non sente.
Il vicino di casa, tuttavia sente qualcuno chiamare una volta. Una volta
sola, poi più nulla, e pensa okay, nothing to worry about, torno a
letto.
Al mattino, hanno trovato il corpo assiderato di Ali.
A una temperatura di -30 con un vento forza 40 ti è concesso solo un tentativo.
Per qualche strana ragione, Ali indossava solo una felpa.
E qui dovremmo scrivere un trattato psico-attitudinale su come gli
abitanti di America e Regno Unito, considerino la felpa alla stregua di
un giaccone Goretex. Nel Regno Unito in modo particolare, ragazzi e
ragazzi se ne vanno in giro con questo felpino da nulla, e i guanti,
quando nel felpino non ci sono tasche dentro cui infilare le mani — e
non tanto per cercare del caldo, quanto piuttosto per liberarsi
dall’impaccio delle braccia — e affrontano il gelo così.
Col felpino.
Intorno allo zero, questo potrà anche consentirti la sopravvivenza, ma a
-30 con un vento forza 40, ti scrive “assideramento” sul certificato di
morte.
New York sta al Midwest di questi giorni come Palermo sta a Cuneo. Non
che questa proporzione renda il suo gelo meno doloroso, intendiamoci.
Giovedì scorso siamo precipitati fra gli aghi del -15. Lo scenario
tutt’intorno cambia completamente. Le strade sono bianche, bianchissime.
Burroughs, nel suo delirio creativo che fu “Pasto nudo”, ci avrebbe
visto delle piste di coca da leccarsi i baffi. Devo ancora capire bene
dove finisca il sale e dove cominci il ghiaccio. Ma è un dettaglio di
poco conto.
Di tanto conto è il cielo, il livello di nitore è talmente alto che
tutte le rare fotografie che scatto sembrano prodotti usciti da
photoshop, i colori saturissimi, siano essi il cobalto di un mezzogiorno
o l’arancio fuoco di un alba, di un tramonto. È come vivere in un manga
giapponese. Ma siamo in pieno occidente. Il ché disorienta.
Poi c’è la rarefazione dell’aria, che la rende pressoché alcolica. Si
cammina e si beve gin fatto in casa, quello che contrabbandavano nel
Proibizionismo e che ti mandava in fretta al creatore. Un fuoco bianco
ti sta addosso: si ha freddo, ma al contempo si brucia. La pelle delle
gambe, del viso. È una sensazione elementare, primitiva, in cui il tempo
ti strattona, prepotente. Non c’è modo di contemplare alcunché, si è
comandati dalla necessità di raggiungere la propria meta al chiuso il
più presto possibile.
È un diktat a cui mi sottometto molto malvolentieri. Le strade di New
York sono il mio belvedere. Di solito mi fermo, rimiro, mi chino e
fotografo qualche piccolo oggetto che trovo per terra, oppure guardo su e
trovo un panorama nuovo, un cornicione mai visto, un patchwork di
edifici che mi ricorda ogni volta che NY, con i suoi innumerevoli cambi
d’abito, le sue metamorfosi pressoché giornaliere, mi sfuggirà sempre.
Lei fugge, io seguo. Di solito, con me funziona il contrario: sono io a
fuggire.
Serves me right.
Il freddo uccide la contemplazione, inibisce l’esplorazione. L’ignoto finisce tra le grinfie del domestico.
Vista l’inconfutabilità di quanto sopra, sto provando a manomettere il
sistema, e vedere cosa ne esce. Sto cercando di camminare il più
possibile all’aperto. Di capire se il mio corpo si ostinerà a ribellarsi
al gelo esterno, oppure se, a un certo punto si farà più duttile, se si
modellerà attorno ai rigori di questo inverno. In poche parole, sto
testando l’elasticità del mio fisico. Per risolvere un quesito.
Il fatto che in estate sia così flessibile, e sopporti temperature
altissime con dignità, e in inverno sia così refrattario a spingersi
oltre, sarà da imputarsi alla natura intrinseca del caldo e del freddo,
oppure sarà una questione di semplice abitudine del mio corpo? Di pigrizia?
Quindi sì, sto camminando New York City in lungo e in largo, mentre i
marciapiedi sono più deserti del solito, e i pedoni imbaccuccati che si
vedono, puntano al prossimo bar, al prossimo negozio, alla prossima
porta. Io mi caccio la sciarpa davanti alla bocca, non scordo più il
secondo paio di guanti — been there, done that, rischiando la caduta
libera di troppe falangi — e cerco di fare dei tratti a piedi mentre di
solito prendo la metro.
Il problema nuovo più grande riguarda gli occhi. Non il fastidio a
livello superficiale, la brezza italiana che te li fa lacrimare in una
giornata particolarmente ventosa. Qui è proprio male dentro, dentro nei
bulbi oculari. E non è che puoi coprirti gli occhi, devi pur vedere dove
cammini.
Ho sentito questo dolore mercoledì, giorno in cui sono andata Upstate NY al Mercy College, e giovedì, con -15.
A un certo punto ho dovuto fermarmi, proteggere gli occhi dietro le mani, come quando si guarda “Shining”.
Ecco quel dolore lì, è stato un dolore nuovo.
Ma il freddo non è solo fisico.
È anche politico.
Atterrata a Newark, il 20 gennaio scorso, mi metto in fila per passare la dogana.
Da quando ho il visto per “alieni straordinari” non temo più quel
momento. Anzi, quasi quasi non vedo l’ora di avvicinarmi al cubicolo
dell’ufficiale di turno per vedere se è gentiluomo e mi dà il “welcome
back” come era successo quando ero rientrata dalla Spagna, lo scorso
agosto.
Non ho fatto i conti con il rigore politico che Trump sta contribuendo a diffondere.
Davanti a me c’è una ragazza cinese. Non si ferma negli USA. Sta
semplicemente transitando per il paese per fare ritorno in Cina.
L’ufficiale le fa il terzo grado.
Io guardo gli altri 47 sportelli, e mi chiedo, proprio a quello con il
braccio duro della legge dovevamo capitare io e questa povera ragazza
cinese?
È il mio turno. Appena dico che lavoro come professore, vedo che gli si accende un campanello d’allarme.
“Lavoro”.
Errore mio, il primo di molti.
“Work” rientra nella lista “parole pericolose”.
Riprende il terzo grado esattamente da dove l’aveva lasciato con la cittadina cinese.
Commetto l’errore numero due.
Dico che scrivo, che sono anche una poeta.
Nella mente del personale dell’Immigrazione, le coesistenze non sono ammesse. Il loro è il mondo dell’aut aut, o o, non e e.
“So are you a teacher or a poet?”.
Io vorrei tanto chiedergli, e tu, fai l’ufficiale o tifi per i Mets?
Forse capirebbe che la nostra identità è multistrato come l’hamburger che si è mangiato a pranzo.
Io spiego che faccio entrambe le cose.
“Dove?”
“FIT e Mercy College”
Errore numero tre.
“Two places? Why two places?”
Si mette a digitare chissà cosa nel computer.
Io provo a spiegare. Comincio ad agitarmi.
Quella agitazione lì, è l’agitazione di tutti gli immigrati che si
sentono ispezionati da capo a piedi, non importa se con uno speculo o un
computer, nel 1911 o nel 2019. Il sudore che senti sotto le ascelle. Il
cuore che prende a correre, il calore dell’ansia a montare —un’onda
rossa da cui non vuoi farti travolgere.
È tutto uguale, non è cambiato nulla.
Mi fa domande in un inglese strettissimo della Virginia, o di uno Stato
del Sud, che stento a capire. Gli faccio ripetere le domande, e questo
lo stizzisce.
Vedo tutto come se fossi un regista dietro la cinepresa della realtà: io sono la protagonista, ma non l’attrice. Questo non è un film.
Mi chiede di mostrargli la “petition”.
Al ché io sento il pavimento polverizzarsi sotto i miei piedi.
Il mio visto prevede che un avvocato scriva una “petition”, un documento
molto pompato in cui ti descrive come una Fabiola Gianotti post-CERN e
pre-MIT.
Mai prima d’ora, in nessun aeroporto degli USA — JFK, La Guardia,
Newark, Miami— mi era stato richiesto di esibire la “petition”. Non mi è
mai stato detto di dovermela portare appresso.
Glielo dico.
“From now on, always travel with your petition with you”, ordina.
“It will make my job easier”, chiosa.
I don’t care a fuc*ing sh*t to make your job easier, you prick, è la risposta che mi riempie la bocca, e il gusto di queste parole è così dolce che vorrei proprio condivederlo con lui.
Ovviamente devo ricacciarle indietro tutte, una per una.
Mi lascia andare, pregustando il prossimo sventurato da torturare.
Una volta a casa, racconto l’accaduto a Bob, che è in cucina con un’amica.
Mi dicono che durante quegli ultimi dieci giorni hanno inasprito i
controlli negli aeroporti di New York. Era su tutti i giornali.
L’ho provato sulla pelle.
Tra freddo fisico e freddo politico, il secondo è senz’altro il più molesto.
Per rimanere in tema… Ieri sono andata all’Angelika Film Center per vedere “Arctic”, di Joe Penna.
Un film che no, non ha proprio a che fare con i tropici… L’ho scelto
sia per coerenza climatica con il mondo là fuori, che per grandissima
ammirazione verso il protagonista, l’attore danese Mads Mikkelsen, uno
dei migliori interpreti che abbiamo al momento in Europa, e sulle spalle
del quale tutto il film poggia. Quando a Hollywood si accorgeranno
veramente di lui, non lo faranno più tornare a Copenhagen.
Presentato all’ultimo Festival di Cannes, “Arctic” si inserisce nel
filone letterario-cinematografico della sopravvivenza. Da “Robinson
Crusoe”, a “Il richiamo della foresta”, da “Alive”, “Castaway”, “The
Revenant”, a “Open Waters”, allo splendido “All Is Lost, tutto è
perduto” —con un incredibile capitano Robert Redford disperso in barca
in mezzo all’Oceano Indiano — la fascinazione che attira il
lettore-spettatore verso storie di umana lotta contro la natura non
invecchia mai, non finisce mai fuori moda.
Sono racconti epici, che potrebbero a ogni buon diritto sedere accanto
alle Upanisad, a Gilgamesh, ai Cavalieri della Tavola Rotonda. Sono
storie di eroi, ma questi eroi sono umani, non sono divini. Per questo
ci piacciono tanto. Sono come noi. Ci identifichiamo. Li ammiriamo, li
disprezziamo anche. Fondamentalmente, li capiamo.
Il regista brasiliano Joe Penna, alla sua opera prima, ha saputo
sfruttuare questo terreno che personaggio e spettatore condividono, ha
aggiunto pochi selezionatissimi ingredienti, e ha cucinato un film che
spero tutti voi Moviers, anche quelli più intellectual, più Nouvelle
Vague, andrete a vedere. Passerete un’ora e mezza sulle spine, a penare,
e pronti a schizzare davanti a due colpi di scena che oh-boy sono
incastrati ad arte nel film.
C’è un uomo solo in una landa innevata di un paese nordico che potrebbe
essere l’Islanda, la Groenlandia, il Circolo Polare Artico. Qualsiasi
posto con molto ghiaccio, molto vento, molta voglia di non metterci mai
piede.
Capiamo subito che quest’uomo, Overgård — il nome scritto sull’etichetta
del giaccone — è l’unico sopravvissuto di un incidente aereo.
Probabilmente è egli stesso il pilota del piccolo velivolo che è
diventato il suo rifugio.
Passa le giornate a pescare pesce, mangiare sushi (!) e a mandare
segnali radio da un aggeggio a manovella che emana tenerezza, più che
veri e propri segnali radio.
La sua routine da survivor viene stravolta completamente quando un
elicottero si accorge di lui. Immaginate la felicità di Overgård.
Finalmente salvo!
Purtroppo però Overgård non ha calcolato il fattore tempesta di neve,
che l’elicottero non riesce a domare, schiantandosi al suolo. Sciagura
su sciagura. Tutti i membri dell’equipaggio muoiono nell’impatto. Tutti
tranne una giovane donna, che riporta un brutto taglio all’addome.
Da quel momento in poi, per Overgård cambia tutto. Non c’è solo lui da
portare in salvo. Adesso c’è lei a cui badare. Il piano è quello di
lasciare il “campo base” del suo aereo caduto, e, armato di una mappa
trovata sull’elicottero — una mappa più dai tratti waltdisneyani che
geografici — Overgård decide di prendere in mano la situazione,
attraversare la landa artica battuta da venti micidiali, e portare la
ragazza a un rifugio, a molte miglia ghiacciate da lì.
Comincia dunque il viaggio della speranza. La ragazza moribonda sdraiata
su una barella, la barella carica anche di altri arnesi, allacciata
alla vita di Overgård, e Overgård che tira il tutto. Con il vento di
Chicago e le tempeste di New York tutt’intorno.
Ovviamente non c’è solo il maltempo. Ci sono anche degli orsi polari, e
dei crepacci, e dei massi che incidono tagli profondissimi nei polpacci
dei poveri Overgård…
Sarei meschina se vi raccontassi il finale, quindi taccio. Ma parlo a
ruota libera in primis sulla monumentale interpretazione di Mads
Mikkelsen, che pronuncia si è no quattro parole in tutto il film, ma
parla con ogni singola ruga, movimento, lacrima, silenzio. L’autenticità
di cui è portatore lo rende umanissimo, tenerissimo, in tutta la sua
eroica impresa sul filo del fallimento.
A un certo punto, capisce che non riuscirà a trascinare la barella con
la ragazza su per pendio di rocce. Ci prova e ci riprova, ma non ce la
fa. L’alternativa è prendere una strada cinque volte più lunga.
Certo la ragazza è in fin di vita… Non reagisce più… Forse è il caso di proseguire da solo… Overgård l’abbandona.
Ma dopo essere precipitato in un baratro di senso di colpa dalle
fattezze geologiche, ed essersi procurato quel taglio di cui sopra,
capisce che non si lascia un essere umano da solo all’inferno. Ci si
prova in due, a farcela. E se non ce la si fa, fine, fain, si muore in
due.
A riprova che l’uomo ha qualcosa che va oltre il belluino mors tua vita mea.
Tra i tanti aspetti che mi sono piaciuti di “Arctic”, la distanza che il
regista prende dai cliché che avrebbero fatto del film l’ennesimo
“Castaway”: un tripudio di flash-back, in modo da inserire il
personaggio in un passato doloroso e accattivarsi i cuori degli
spettatori. Joe Penna sceglie la via più impervia. Lascia l’analessi là
negli anni ’90 e ambienta il suo film in uno — spietatissimo —
bianchissimo eterno presente in cui non sappiamo nulla di Overgård, in
quali circostanze è finito lì, se tiene famiglia.
Questa è una gran lezione di cinema: non abbiamo bisogno di
back&forth, di avanti-indietro temporali: ritorniamo ai gesti base
per estrapolare l’umanità di un uomo. La sua forza, la sua tenacia. I
gesti di Overgård, non si scordano più. La cura con cui tratta la
ragazza, ma anche il modo in cui prova momentaneamente il risveglio dei
sensi quando trova una confezione di noodles nell’elicottero — noodles
dopo mesi di sushi! — oppure quando trova un accendino e può scaldarsi
le mani su un fornelletto, assaporare un brodo caldo.
Il rigore stilistico del regista si esplica anche nel rifiuto di uno sguardo che maternizza o demonizza la natura.
La natura è indifferente, ostile nella sua ostile indifferenza, ma non
buona o cattiva. Non c’è un indugiare su spettacoli naturali, piane
innevate da National Geographic, non c’è l’esaltazione o la mitizzazione
del Grande Nord.
“Arctic” ci mostra che la natura fa male, è violenta, bruta,
intrinsecamente senza cuore. Che la natura, sostanzialmente, non ha
etica.
Non c’è spazio, nel film, per la contemplazione, la ricerca estetica, o
lo stupore. Overgård deve salvare se stesso e la ragazza, o almeno
provarci. Per riuscirci — o almeno provarci — deve superare gli ostacoli
che la natura frappone involontariamente tra lui e il suo risultato.
Faticosissimo passo dopo faticosissimo passo. Non è, pertanto, una
lotta. È uno scamparla, riportando meno danni possibili: siamo lontani
anni luce dall’idea del Sublime Romantico, dello spaventoso come
portatore di bello.
In “Arctic” la natura è un insieme di insidie da aggirare, siano esse in forma di plantigrade, gelo o crepaccio.
“Arctic” come meglio di tanti survivor movies mostra che la
vita è cocciuta, molto più della morte. E che un personaggio non deve
essere necessariamente portarsi appresso un fardello di informazioni per
essere credibile o compatibile allo spettatore. Possiamo usare
l’immaginazione, no? E questo permette a Overgård di diventare un
personaggio universale, che costruiamo attraverso i piccoli grandi gesti
che compie.
Un po’ come Santiago di “Il vecchio e il mare”.
“Arctic” è un film per tutti, coinvolgente, sensazionale, dolce, spietato, angosciante, penoso.
Cosa si vuole di più da una pellicola?
E Fellows, anche per stasera è tutto. Frunyc IV aggiornato dove sapete, ringraziamenti sentiti e saluti, polarmente cinematografici.
Let’s Movie
The Board
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Let’s Movie 397 da NYC commenta “COLD WAR” di Pawel Pawlikowski, saluta per il Christmas Break e vi vede in Italia :-)

Forty, Fellows,
sono quaranta. Gli anni. I miei. Li ho compiuti ieri, 22 dicembre 2018.
Quaranta non sono trentanove o quarantuno. Sono quaranta. E non è che io
voglia drammatizzare il traguardo — io? Drammatizzare? Quando mai…—
oppure mitizzare il traguardo. Oppure plagiare Carol Alt in quel film di
costumi sgambati e tessuti sintetici che fu “I miei primi
quarant’anni”.
Quarant’anni non sono nemmeno il mezzo del cammin di nostra vita, perché
oggi la donna ha un’aspettativa di vita media che si aggira intorno
agli 85,6 anni.
I quaranta si distinguono dalle decadi precedenti innanzitutto nella
parola. Gli -anta segnano l’inizio di una sfilza di decenni in -anta.
Mentre prima eri in quel paradiso artificiale di -enti ed -enta che ti
faceva rientrare nello spazio della gioventù anagrafica.
Il discorso dell’età viaggia un po’ tutto sui binari del luogo comune.
Vedi per esempio il tormentone dell’età dello spirito che non c’entra
nulla con quella del fisico. E pure lui, il fisico, negli ultimi tempi,
sta tirando fuori trucchi mai visti, e ci sono donne di sessant’anni,
sett’antanni, che ti mozzano letteralmente il fiato quando le vedi.
Sharon Stone, Cher, Jane Fonda. Se nelle loro vene scorra ancora qualche
goccia di sangue oppure solo pozione magica a base di acido ialuronico e
botox che magicamente le preserva, questo è un dubbio da tenere in
considerazione. O magari nel cassetto del comodino hanno il patto
siglato con il diavolo, responsabile di aver ritoccato il mezzo del
cammin di loro vita in cambio di chissà quale prezzo — vedete voi che fine ha fatto Faust.
Io mi sento età diversissime, tutte nello stesso tempo.
Ho compiuto quarant’anni, me ne sento venti, e mi illudo di dimostrarne trenta (!). Sono tre decenni in uno.
Per non parlare poi di quanto millenaria posso sentirmi, a volte. Ci
sono dei momenti in cui credo di reggere tutto il peso del tempo sulle
spalle. Questo mi succede soprattutto quando sento brutte notizie,
oppure se intravedo certi comportamenti umani reiterarsi nell’errore.
Allora mi sento antidiluviana. Come se appartenessi al passato e fossi
costretta a rivivere quella situazione, quell’errore, infinite volte.
Ma la maggior parte del tempo, il tempo è incolore e inodore. Ci nuoti dentro senza vederlo.
Quando poi passi davanti alle pietre miliari dei decenni, ti fermi un attimo e ragioni.
Ieri è toccato alla pietra miliare con “40” scritto sopra, quindi mi sono fermata e ho ragionato.
La domanda —spietata— che ci si pone di solito è: “sei riuscito/a a fare
tutto quello che ti eri prefisso/a di fare entro la deadline dei 40?”
Sulla mia lista di “cose da fare entro i 40” comparivano, fra le tante, le seguenti voci
- mettere piede nell’emisfero australe: fatto. Australia e Nuova Zelanda
- trasferirsi a New York: fatto. Upper West Side
- pubblicare il primo libro: fatto, per un pelo. “Bitter Bites from Sugar Hills“. Grazie agli USA
- fare il bagno nel mare di notte: fatto. Puglia. Aiutata dalla luna piena, cosa che potrebbe renderlo passibile di squalifica
- fare il bagno nel mare nuda: fatto. Tasmania, Flinders Island. Aiutata da 53 km di spiaggia deserta, gli unici occhi indiscreti quelli di qualche wombat di passaggio — spero che la mancanza di occhi indiscreti non lo renda passibile di squalifica anche in questo caso. A ogni modo, essere nudi nel mare mi è parsa una disciplina molto simile a quello che dovette essere, quarantanni orsono, il nuoto intrauterino.
- fare il bagno con una tartaruga marina: fatto. La Gomera. A oggi non so se l’inconsapevolezza della tartaruga, che nuotava cinque-sei metri sotto la mia pancia, anche in questo caso, lo renda passibile di squalifica. Spero di no però.
- cadere un innumerevole numero di volte: fatto. Un’innumerevole numero di volte
- rialzarmi un innumerevole numero di volte: fatto. Un’innumerevole numero di volte.
L’ultima voce è, naturalmente la più complessa. Cadere è un movimento
che mi riesce straordinariamente bene — campionessa di caduta libera. La
fase della risalita risulta ancora ancora molto ostica. Ma anche per
motivi di fisica classica, dico io. Parte della colpa sarà certamente
imputabile alla forza di gravità che schiaccia a terra: voglio pensare
che ci sia una componente fisica nel peso esistenziale che mi/ci preme
addosso.
La pietra miliare dei quaranta è anche, in qualche modo, filosofale. Nel
senso che ti fa vedere e rivedere certi dogmi a cui ti eri votato nei
decenni precedenti.
Io mi sono votata per moltissimo tempo al tempio spietato di una
citazione di Sylvia Plath, amatissima poetessa americana che ho
posizionato nella categoria “maneggiare con cautela” dopo averla
osannata in tutti i miei vent’anni — e se c’è una cosa di cui sono
certa, è che non vorrei mai, mai, mai tornare in balia dei vent’anni,
quando porti a spasso te stesso nella più totale inconsapevolezza.
La citazione recita “fa male non essere perfetti”.
“Fa male non essere perfetti” è stata il mio Vangelo, la mia Verità. Non
ho mai pensato di metterla in discussione. Era scritta con il sangue:
quello di Sylvia, anche, morta suicida all’età di trent’un anni — ora la
sua fine rispecchia tristemente la tensione a un mito inarrivabile.
Vista l’intoccabilità di “fa male non essere perfetti”, negli ultimi tempi ho cercato di ribaltarla chiedendomi: e se essere imperfetti facesse bene?
Non posso mentire e dirvi che ho trovato la risposta e che la risposta è sì, essere imperfetti fa bene.
Ci sto girando intorno. Purtroppo noi essere umani nati cristiani,
veniamo cresciuti con l’idea di essere stati creati a immagine e
somiglianza del divino. Dio, nel racconto popolare evangelico che ci
viene fatto di lui, è perfetto. Ergo noi, sue creature, tendiamo a
quello, alla perfezione. Non ci meravigliamo, quindi, se, a un certo
punto del nostro cammino su questa terra, noi si voglia emulare la
figura del padre.
Svincolarsi da tutto questo, da tutti i dogmi che ci si infilano
sottopelle da piccoli senza che noi ci si accorga, è il lavoro di una
vita.
Cominciare presto è buona cosa.
Rimane, tuttavia, il lavoro di una vita.
Due estati fa, mentre risalivo la ciclabile lungo l’Hudson, all’altezza
della 57esima o giù di lì, mi sono scontrata con un poster gigantesco
affisso a un grattacielo.
“Be the woman you want to be — Coco Chanel”.
Ricordo di aver fermato la bici, estratto il quadernino, e annotato la frase, per timore di dimenticarla.
Timore inutile.
Non l’avrei più scordata.
“Be the woman you want to be” ti dice un sacco di cose. Prima di tutto,
non limitarti a quello che sei. Realizza quello che vuoi. Questo
suggerimento mette la volontà prima dell’essere — chissà cosa ne direbbe
Sartre, fosse vivo. Se noi diventiamo ciò che vogliamo, ci sganciamo
automaticamente dalla zavorra della nostra natura e della nostra
finitezza. È un suggerimento che invita a cambiarsi, a non vedersi
condannate da ciò che siamo, ma a concretizzare l’idea di noi che
coltiviamo.
Coco non ha aggiunto che il prezzo da pagare è alto, nel mettere in
pratica questo suo consiglio. La volontà è un’animale sempre affamato.
Trovare l’equilibrio, anche quello, è il lavoro di una vita, dopotutto.
Not that I am anywhere close there, articolerebbero qui la mia lontananza alla meta…
Un’ultima citazione che ripeto come un pappagallo e un mantra, e in cui cerco di credere, viene da Nelson Mandela.
“It always seems impossible until it’s done”.
Tutto quello che ho fatto, ma proprio tutto tutto, mi è sempre sembrato
impossibile prima di mettermi a farlo. Dall’essere andata a studiare a
Venezia, all’essermi trasferita a New York. La seconda poi, pareva un
miraggio da matta senza speranza di oasi. Tutto quello che è capitato
negli ultimi due anni ha confermato le parole di Nelson. Dall’abitare
nell’Upper West, al pubblicare un libro di poesie in inglese —
un’italiana che pubblica poesia (poesia!) in inglese in America. Sounds
pretty unlikely.
È una massima, la sua, che incapsula i sogni nella pratica, e ringrazio Nelson per averlo fatto per tutti noi.
E poi naturalmente la pelliccia color lavanda.
Fino al 21 dicembre sera ho corretto esami e registrato voti. Il 22
dicembre ho celebrato la mia personale festa della liberazione,
scorrazzando per la città come solo i bisonti del Montana prima di
Buffalo Bill.
Ho appagato la sete di sapere andando al Jewish Museum, per la mostra
“Chagall, Lissitzky, Malevich: The Russian Avant-Garde in Vitebsk,
1918-1922”.
Ho scartato l’Avanguardia russa e ho tenuto il cuore di Chagall, pittore
amatissimo, per le capre che fa spuntare in cielo, per i visi verdi e
per quel blu imperante da cui non smettereresti mai di farti inondare.
Poi SoHo. Ma SoHo il 22 dicembre è una colata lavica di regali da fare e
corpi umani impegnati a farli. Quindi sono scappata in fretta, per
riparare sulla ventiseiesima, tra la Sesta e la Settima, dove c’è il
Buffalo Exchange, il mio porto sicuro. Lì trovo sempre qualcosa.
Ieri ho trovato una eco-pelliccia color lavanda. O meglio, una nuvola
color lavanda, dentro cui sono sprofondata e da cui non sono più stata
in grado di liberarmi.
Ora, c’era bisogno che io comprassi una pelliccia di un colore rinomatamente sobrio, che per altro è anche il colore del mio bagno?
Naturalmente no. Ho già molte altre idiozie nell’armadio — certo non lavanda.
Ma se ragionassimo in termini di bisogni strettamente vitali,
sopravvivremmo con bacche e radici. Taglieremmo via tutto. L’arte, la
poesia, la bellezza. Ma è lì che ci distinguiamo dagli animali. Nella
capacità di apprezzare una nuvola lavanda con un essere umano dentro.
Oppure una pièce teatrale, oppure un verso. Oppure un quadro.
Spero di voler comprare pellicce inutili e tacchi inutili e cappelli inutili anche a ottant’anni. Novant’anni.
E di cercare innamorati che volano sopra le case, come ci mostra sempre lui, Chagall.
E di rimanere sempre hungry e foolish, come diceva Jobs.
Curious and silly, come direi io.
Soprattutto silly 🙂
“Dopo la quarantina ce n’è una ogni mattina”, recita mia madre da millenni, riferendosi agli acciacchi post-quaranta.
Però per una volta, mi tocca ringraziarlo, questo corpo che da quarant’anni mi contiene, e che non va mai bene. Non solo mi supporta, ma mi sopporta, il che è ben più difficile. Gliene ho fatte (fare) di tutti i colori, e ancora gliene faccio (fare) di tutti i colori.
Ma oggi lo ringrazio, e cerco di essere più clemente.
Non so come faccia, dopo quarant’anni di me!
Prima di passare al film della settimana, vi informo che Lez Muvi chiude
per il Christmas Break fino più o meno la fine di gennaio.
Una pausa lunghissima?
No, una pausa giusta che, udite udite, mi permette di venire in Italia! 🙂
Ebbene sì, segnatevi le date: dal 9 al 20 gennaio,
rimbalzerò fra Trentoville, Milano, Trieste, Venezia and who knows…
Cercherò in ogni modo di lanciare un Call-for-Moviers e un Lez Muvi
speciale dal Mastro all’Astra… Vediamo se ce la faccio!
Altrimenti fatevi vivi, e cerchiamo di vederci — [email protected].
Sarà stranissimo tornare in Italia dopo quasi due anni di assenza… Sono quasi intimidita.
Ho detto “quasi”… 😉
Il compleanno è passato liscio liscio finché non si è incagliato nel film della settimana, “Cold War” di Pawel Pawlikowski.
Ve lo ricordate il capolavoro “Ida”, qualche anno fa? Ecco, l’impronunciabile Pawel Pawlikowski è il regista di “Ida”.
“Cold War” ha vinto il premio alla miglior regia all’ultimo Festival di Cannes ed è in lizza per qualche Oscar, a febbraio.
Il problema con il film è tutto mio, forse. Mi aspettavo tantissimo. Ho
trovato tanto, ma non -issimo: un mélo, un gran bel mélo, girato ad
arte, con attori capaci e un bianco e nero sempre accattivante, ma pur
sempre un mélo. Nothing new under the sun.
Siamo in Polonia, anni Cinquanta. La giovane Zula viene scelta per far
parte di una compagnia di danze e canti popolari. Tra lei e Wiktor, il
direttore del coro, sboccia subito un amore feroce.
Nel 1952, arrivati a Berlino Est per un’esibizione, Wiktor organizza la
fuga dall’altra parte del Blocco per vivere finalmente in libertà la
loro storia d’amore. Ma Zula, animo focoso e ribelle su cui grava il
sospetto di aver ucciso il proprio padre, contro ogni previsione, non si
presenta all’appuntamento concordato.
I due s’incontreranno di nuovo sulla scena artistico-bohemien di Parigi,
con i rispettivi partner del momento, ma ancora perdutamente
innamorati.
Il finale, come ogni mélo, è una catastrofe d’amore e morte. Resa ancora
più drammatica dal fatto che i personaggi di Zula e Wiktor ricalcano i
veri genitori del regista, di cui lo stesso regista ha detto: “Erano
entrambi due persone forti e meravigliose, ma come coppia un infinito
disastro”.
In “Cold War” c’è tutto quello di cui una tragedia d’amore ha bisogno.
Innanzitutto un amore potentissimo, a tratti ingestibile, violento,
fatto più di silenzi e sguardi che di lunghe chiacchierate sopra una
tazza di tè. E poi c’è il dramma della Storia, negli ingranaggi della
quale la storia di Zula e Wiktor finisce. Un amore diviso da cortine, da
sbarre, da reclusioni, da legami, che non trova la pace nemmeno alla
fine — o nella fine…
“Andiamo dall’altra parte, la vista è migliore da lì”, suggerisce Zula a
Wiktor, nell’ultima scena, ribadendo il loro status di innamorati
condannati al nomadismo eterno.
Anche i due singoli personaggi sono piacevolmente diversi. Tanto
passionale, selvaggia, furia Zula — una vera forza della natura — quanto
mite, introverso, raffinato Wiktor. Questa diversità li attrae e al
contempo li respinge, sancendo una dinamica di coppia pressoché
impossibile — proprio come quella dei genitori veri del regista.
Di “Cold War”, ti può piacere il lavoro stilistico, che avevamo già
apprezzato in “Ida”: l’impiego del formato quadrato al posto dei quattro
terzi, e la riconferma del bianco e nero sono due mezzi linguistici
familiari a Pawlikowski, che è in grado di maneggiare con grazia ed
efficacia.
Allora, se tutto è così perfetto, forma, contenuto, scrittura del personaggi, cosa c’è che non va?
Forse il “nothing new under the sun”. Forse tutto troppo già detto e
visto. Forse troppi canti popolari polacchi all’inizio — i canti
popolari polacchi nooo!! Forse avrei voluto vedere qualcosa di più,
perché da uno come Pawlikowski, che ci ha abituato a qualcosa di
spettacolare come “Ida”, mi deve dire qualcosa di più.
O forse “Cold War” mi ha ricordato troppo da vicino “Franz”, di François
Ozon, che avevo molto apprezzato, ma che in qualche modo, condivide
moltissimo con questa storia, a partire dall’amore travagliato, l’amore
ai tempi del dopoguerra, e la scelta del bianco e nero.
Gli auguriamo ogni bene agli Oscar. Ma certo non a scapito di “Roma”, che lo batte, emotivamente, in un ogni fotogramma.
E siamo arrivati in fondo, Moviers. In fondo al pippone di oggi, e in fondo al 2018.
Ci ritroviamo a fine gennaio qui in Lez Muvi, e a metà gennaio in Italia.
Insomma, non vi liberate di me. Nonostante i quaranta!
Frunyc IV aggiornato, auguri di cuore, ringraziamenti di testa, e saluti, anagraficamente cinematografici.
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LET’S MOVIE da NYC commenta “THE HOUSE THAT JACK BUILT” di Lars Von Trier

Madeline Millan Moviers
è una mia collega professoressa all’FIT. Insegna spagnolo. È di Puerto Rico. Ha quell’inglese che sa di Sud America.
Quando esclamo “mammamia”, non fa una piega. Non come gli americani, che ridono e, maldestramente, lo ripetono.
Madeline è anche una poetessa. Ha pubblicato molte raccolte in spagnolo. Tante sono state tradotte in inglese.
Quando viene a sapere che anch’io sono del partito della parola, si interessa subito.
Voglio introdurti alle scrittrici del PEN America Women’s Literary Workshop, mi scrive per email.
Quando leggo “PEN America”, io, nella mia testa, m’inginocchio.
Il PEN America è un centro la cui istituzione risale al 1922 —il Neolitico, in parametri storiografici americani — e il cui obbiettivo è “difendere e celebrare la libertà d’espressione negli Stati Uniti e nel mondo attraverso la promozione della letteratura e dei diritti umani”. Così è scritto nella loro costituzione.
Sono Membri del PEN America scrittori, poeti, drammaturghi con almeno una pubblicazione, editori e traduttori professionisti. È considerato il fiore all’occhiello della cultura americana — un luogo di prestigio, storia e nobili valori. Ha i suoi bravi premi, un Festival e organizza tutta una serie di conferenze, incontri, eventi, sparsi in tutto il mondo. Sì perché il PEN America è diventato anche PEN America International, e conta su qualcosa come 100 sedi worldwide. Un’istituzione, insomma.
Quando è nato, nel Neolitico, il PEN America era una struttura men-only, ovviamente. Ché la donna doveva rimanere nella caverna e badare ai piccoli, mentre l’uomo andava per la giungla a pubblicare e tenere reading. Poi le donne sono arrivate, ma senza una stanza tutta per sé, come invece voleva Virginia Wolf. Allora una venticinquina di anni fa, la poetessa newyorkese Ilsa Gilbert, ha detto, ma perché non istituiamo, all’interno del PEN America, un luogo in cui le scrittrici membre del PEN possano incontrarsi, e condividere i propri lavori?
Siccome siamo a New York e le idee carambolano nella pratica con più probabilità che in Italia, il PEN Women’s Literary Workshop ebbe inizio.
Madeline mi porta a uno di questi incontri una serata piovosissima di ottobre.
Io sono un’ospite, non devo dire o leggere nulla. Ma sono agitata come se dovessi fare un’interrogazione.
Ci si incontra una volta al mese, e la location cambia ogni volta. Le membre che hanno a disposizione una casa sufficientemente spaziosa, la mettono a disposizione per l’incontro, che si basa sul chi viene viene — un po’ come Let’s Movie quando Let’s Movie agiva a Trentoville.
Ma l’incontro di ottobre, non so bene perché, si tiene nella sede ufficiale del PEN America, che sta nel cuore di SoHo, al 588 Broadway. Forse per quello sono agitata. Sono intimidita dalla sede. Gli uffici bianchissimi, dove spiccano ovunque il rosso e il nero del logo “PEN America”.
Le donne sono tutte senior, ultra over senior. Viaggiamo dai settanta in su, con qualche incursione nella cinquantina.
La mancanza di anni che mi porterebbe al loro livello mi pesa addosso. Pensa se vedessero che nei messaggi sul cellulare uso la K al posto del “chi”, 3 al posto di “tre” e la x in vece del “per” — come Salvini!
Temo che la loro età le renda divine, demiurghe. Che loro sappiano tutto ancora prima di conoscermi.
La K, il 3, tutto.
Madeline mi presenta a Ilsa Gilbert, quella Ilsa Gilbert.
È talmente piccola e magra che potrebbe starmi in borsa. Ha due occhi azzurri che spuntano fuori, freschissimi, dalla rete di rughe che ricama il suo viso — il colore non invecchia, penso con gratitudine.
Arrivano altre membre. Una con un bastone, una persino con un deambulatore.
Fuori piove che Dio la manda. Eppure queste vecchine se ne sbattono lettaralmente pur di essere letterariamente presenti all’incontro.
Quando parlo di resilienza newyorkese intendo anche questo. Il “no mattter what”. Indipendentemente da tutto, ci sono.
Questo mi ha destabilizzato i programmi molte volte.
“Ma chi vuoi che ci vada, con questo tempo?”.
Appena trasferita qui, non facevo che rassicurarmi con questa domanda quando programmavo di partecipare a qualche evento. Poi arrivavo sul posto e trovavo pienissimo, se non sold-out.
I newyorkesi non permettono ad alcunché, meteo compreso, di intralciare i loro programmi. Se si tratta di meteo, aggirano l’ostacolo con outfit poco edificanti, ma lo aggirano.
Quindi non c’è da stupirsi che una scrittirce novantenne faccia il suo ingresso in deambulatore quando fuori imperversa l’apocalisse.
Poi arriva Rosalie, Calabrese. È ancora più magra di Ilsa. Nella mia borsa, ci nuoterebbe.
Rosalie è molto generosa, e mi segnalerà, nelle settimane successive, eventi poetici, e salotti letterari.
Il PEN America Literary Women’s Workshop funziona così. Tre scrittrici hanno dieci minuti a testa per leggere i loro scritti, e poi si apre un open mic, un microfono libero, in cui chi vuole può leggere per cinque minuti.
Una delle scrittrici da dieci minuti è proprio Rosalie. Legge da un librino sottile come lei. “Remembering Chris”.
“È suo figlio. Si è suicidato lo scorso anno”, mi sussurra Madeline all’orecchio.
La sua poesia non è strappalacrime, drammatica, come si potrebbe pensare.
Mantiene la dignità.
Ricordo un verso.
I reach for your hand/and hold the memory.
Altre donne leggono.
Molta poesia che sento, non mi parla. A quanto vedo, qui in America c’è la tendenza ad annacquare la poesia. A perdere la musica. A scrivere narrativa, e chiamarla poesia. Per questo, credo, quando mi capita di leggere le mie cose, mi si dice sempre “they are music”.
Se si perde la sintesi e si diluisce il pensiero, e con esso la parola, allora abbiamo la prosa. Ma se voglio scrivere in prosa, scrivo in prosa. Non la spaccio per poesia.
Quindi non rispondo molto, emotivamente parlando, a quello che le mie orecchie sentono. Ciononostante, ascolto con attenzione.
Non c’è solo poesia. Una drammaturga sta lavorando a una pièce teatrale, e ci legge un monologo. Una scrittrice di racconti, legge la bozza di un nuovo racconto.
Mi piace la formula “workshop”. Il fatto che alcuni dei lavori letti siano in-progress.
E mi piace l’energia di queste donne, che alla loro veneranda età, continuano a scrivere, uscire, fare, brigare. Che non si fermano davanti a niente.
Se me lo chiedete, è proprio questo tipo di donna che vorrei essere un giorno. Non lo sono ancora.
Nei giorni buoni sono una che ci prova. Nei giorni meno buoni una che arranca.
Rosalie mi invita al salone letterario di Otis Kidwell Burger, la 94enne del Greenwich Village di cui vi avevo accennato in un passato pippone.
I novantaquattro anni di Otis sono tutti ben allineati sulla sua spina dorsale ricurva e sul bastone che usa per camminare. Che non è un bastone, è una racchetta da sci, e dio solo sa da dove arriva, nel cuore del Greenwich Village, una racchetta da sci.
Ma la voce è quella di una donna nel fiore degli anni. Sicura e senza esitazioni. Se chiudo gli occhi davanti alla veste da casa in flanella, le scarpe comode, la gobba e la racchetta, potrei trovarmi davanti a una mia coetanea.
Siamo nel suo salotto, al 27 di Bethune Street.
Ci sono due divani diversi, sedie spaiate, una varietà di oggettistica che solo un rigattiere potrebbe eguagliare.
E poi libri, tappeti, un caminetto, uno scrittoio.
Otis è seduta su una sedia di velluto rosso. Un pezzo unico. Tutti sanno che quella è la sedia di Otis. Quando sono arrivata era libera, ma ho intuito immediatamente che quella sarebbe stata la sua sedia. Nella repubblica anarchica di New York City — e del Village — ha la solennità di un trono.
Otis fa il suo ingresso per ultima. Cammina a stento, ma cammina. Da sola. Dietro di lei, il suo gatto, arancio, a righe.
Otis avverte che il felino è molto “naughty”, e che morde.
Io lo accolgo con uno starnuto.
Prego tutti i santi allergici in paradiso di non farmi attaccare con il fuoco di fila di sternuti, come ogni tanto succede.
Fortunatamente mi limiterò a quattro, sparsi per tutto il reading.
I santi allergici hanno guardato giù.
Nel salone letterario di Otis funziona un po’ come con il Workshop delle PEN American Literary Women. Due scrittori leggono per venti minuti, e poi c’è il microfono libero. È il coordinatore del gruppo, un poeta che sembra Santiago, il vecchio de “Il vecchio e il mare”, ma con qualche libbra di più intorno al girovita, a scegliere gli scrittori che leggono per venti minuti negli incontri successivi.
Io leggo tre poesie da “Bitter Bites”. La voce un po’ tremolante.
Santiago, a fine reading, mi dice se posso venire e leggere il 9 dicembre.
Quindi il 9 dicembre, mi sono spettati venti minuti.
Sono tutti curiosi, gli scrittori —in generale, ma in questo caso, proprio i presenti.
Mi chiedono del mio inglese, di quanto debba essere difficile scrivere poesia in un’altra lingua, e poi venire in un altro paese — ma non conoscevi nessuno? E poi ma come hai fatto a pubblicare in così poco tempo??
Io dico no, non è difficile, poetare in inglese. È scoperta, lavoro e piacere. Tengo sempre a mente che nella lingua, ci entro in punta di piedi.
E no, non conoscevo nessuno, ma a New York non rimani a lungo senza conoscere nessuno.
E sì, sono stata fortunata a trovare un editore disposto a credere a una just-landed come me. Ma ho espiato tanto in Italia.
Prima di andarmene, Otis mi dice, torna, torna. Torna quando vuoi.
“Sai, ho studiato italiano a Venezia”, aggiunge, in inglese.
“L’ho studiato perché avevo un ragazzo italiano…”, sghignazza. Il suo viso si accende di malizia. Ha novant’anni e rotti, ma mi sembra una ragazzina.
E queste sono le reti di New York. Partono da una Madeline che ti invita a un reading, dove conosci una Rosalie che ti invita a un altro reading, e finisci da una Otis, da cui ritorni due volte.
Forse per questo a New York mi sento così “safe”. Percepisco l’esistenza di quella rete, là fuori.
Sono convinta che vada avanti a tramare anche quando io non guardo.
Questa settimana è stata una settimana cinematografica fortunata perché il film che attendevo di vedere dall’ultimo Festival di Cannes, “The House that Jack Built” di Lars Von Trier, è stato introdotto dall’attore protagonista, un tale Matt Dillon, alla Film Society del Lincoln Center.
Io, Matt Dillon, lo ricordavo un po’ gigione in “Tutti pazzi per Mary”. Mai avrei immaginato che potesse reggere due ore e trentacinque minuti di girato larsvontrieriano. Invece, li ha retti. Certo il suo intervento al Lincoln Center non è stato di molte parole. Ma del resto, dopo aver recitato da serial killer in un film come “The House that Jack Built”, comprendiamo e perdoniamo certa fiacchezza di spirito.
America, anni ’70. Jack è un ingegnare, ma avrebbe sempre volute essere un architetto. Questa distinzione risulta essere cruciale per capire — well, tentare di capire — la logica perversa che puntella la mente di questo personaggio. Come lui stesso spiega: “l’ingegnere è un musicista che legge la composizione e la esegue, l’architetto l’ha scritta”. Quindi possiamo dire che l’architetto è il poeta, il creatore supremo, l’artista. Mentre l’ingegnere è un esecutore: un po’ la differenza fra Mozart e Salieri.
Jack ambisce all’architettura: la sua più grande ambizione è quella di costruirsi una casa — la casa del titolo, appunto. Ma Jack è un esecutore. Seriale, per di più.
Jack, oltre a essere un ingegnere, è un serial killer.
Comincia la sua “carriera” da omicida in maniera rozza e grossolana, sfasciando la faccia a una povera Uma Thurman — God, quanto è invecchiata, dov’è finita Black Mamba! — colta nella più classica delle situazioni che ingolosiscono i killer da che murder è murder. Una donna, per altro assai insopportabile, fòra la gomma della macchina e chiede aiuto, a bordo strada: il suo cric è rotto, non può farcela da sola.
Ma tu guarda le coincidenze, un Jack passa proprio in quel momento…
Qui una parentesi linguistica è doverosa. In inglese “Jack”, oltre a essere nome di persona, significa proprio “cric”. Ma tu guarda ancora le coincidenze… E “Jack”, se ricordate bene, è anche “The Ripper”, “Lo squartatore”, il killer seriale più seriale di tutti i tempi. Ma tu guarda, ancora ancora, le coincidenze…
Lo scopo esistenziale di Jack è quello di compiere l’opera perfetta, così da “dar vita”, perversamente e antiteticamente, all’omicidio più sofisticato possibile. Di qui il nome con cui firma i suoi delitti — Mr Sophistication. Per realizzare tutto questo, Jack si serve di una cella frigorifera in periferia dove accatasta tutti i suoi “tentativi” nell’attesa di compiere il capolavoro definitivo: una casa con i “tentativi” al posto dei mattoni…
Nelle mani del genio del male Von Trier, l’ironia è un filo nero che corre lungo tutto il film. Diciamo lungo almeno tre quarti di film. In modo particolare perché Jack è affetto da OCD, ovvero da disturb ossessivo-compulsivo.
C’è niente di più lugubremente comico di un assissino che è costretto dalla sua ossessione a ritornare infinite volte sulla scena del delitto —cosa che non si deve fare mai— perché è convinto di aver lasciato una macchia?
Nel secondo omicidio compiuto, in cui Jack è ancora assai “grossolano” nella tecnica, ritornerà nella casa dove è accaduto il crimine qualcosa come dieci volte. La scena è obbiettivamente molto comica, anche se stiamo osservando un killer al lavoro. Del resto il cinema di Von Trier ci ha abituato a ridere dell’orrido. Quindi noi si sta al gioco e si gioca.
Quanto a struttura, il film è tutto una rievocazione, un flashback, con due voci fuori campo. Quella di Jack e quella di un tale Verge, una figura che potremmo identificare come Dio, o qualcuno/qualcosa di simile — interpretata mirabilmente da Bruno Ganz. Jack suddivide il suo racconto in cinque “incidenti” — così li chiama — che gli sono capitati e che, per qualche motivo, hanno segnato il suo percorso.
In un “incidente” dedicato alla famiglia, Jack prende in ostaggio con l’inganno una madre e due figli, e trasformerà un tranquillo picnic nel bosco, nell’estremo viaggio per i tre malcapitati. Anche qui, il dark humor raggiunge vette larsvontrieriane.
In un altro episodio, la vittima protagonista è una giovane donna, e l’argomento è “l’amore”. Non vi dico nel dettaglio cosa succede, ma vi posso anticipare che Jack si ritroverà con uno dei seni della ragazza a fargli da portamonete — in effetti, la forma si presta…
Jack e Verge inseriscono nella narrazione delle considerazioni altamente filosofiche sulla vita, l’arte, l’esistenza, trasformando la discussione in qualcosa tra dialogo filosofico, seduta psicoanalitica e tete-à-tete fra due megalomani.
La figura di Verge, infatti, assume contorni ora divini, ora psicoanalitici, ora virgiliani. Quest’ultimo contorno è evidente nella sezione finale del film, che s’intitola “Catabasi” — ovvero la discesa di una persona viva nell’Ade — in cui Verge, una specie di Virgilio, accompagna Jack, una specie di Dante — per altro vestito con una vestaglia rossa di chiara dantesca memoria — nell’ultimo viaggio.
E qui Von Trier ci chiede quel “leap of faith” che ogni tanto chiede ai suoi spettatori. Ovvero quello di essere flessibili e aprirci all’allegorico, uscire dalla nostra piccola scatoletta di causa-effetto quotidiana, e riflettere in termini grandi, universali, e metaforici.
Dopo aver guardato in lontananza dei Campi Elisi bagnati da una luce empirea e ammiccanti al Paradiso, Jack finisce giù in una specie di purgatorio dove Verge gli fa una proposta: puoi seguire il cammino convenzionale che tutti seguono, oppure c’è quell’altra strada, oltre quel ponte… Ma certo, se per raggiungerla cadi laggiù, in quel buco laggiù, finisci dritto tra le fiamme dell’Inferno.
Cos’ha fatto Dante? Si è rifiutato di scendere giù per i gironi? Cos’ha fatto Faust? Si è rifiutato di negoziare la sua anima con Mefisto, in cambio della conoscenza?
La scuola della tentazione ha la meglio anche nel caso di Jack.
“The House that Jack Built” è un film molto denso, che ribadisce ancora una volta quanto Von Trier sia innanzitutto un filosofo, un seduttore del pensiero. La macchina da presa non è altro che l’estensione del suo intelletto. Per questo il suo cinema è molto cerebrale, molto schematico e ordinato — cinque “incidenti” più chiusura finale in questo caso, ma ricordiamo “Dogma”, il manifesto a cui aveva aderito negli anni ’90 che prevedeva una serie di regole fisse per rispondere a un’idea di cinema minimalista.
Eppure Von Trier è anche un empatico nato: è questa empatia universale che gli fece dire, infelicemente, al Festival di Cannes del 2011: “I understand Hitler. He did some wrong things, absolutely, but I can see him sitting there in his bunker at the end … I sympathize with him, yes, a little bit”, un’uscita maldestra che gli valse la cacciata da Cannes.
Trier non perde mai la componente emotiva del suo spettatore. Nel caso di “The House that Jack Built”, Jack costringe lo spettatore a empatizzare, in qualche modo con lui — così come Von Trier “empatizzava” con Hitler? — lo porta a compiere l’estremo salto con lui, a vedere come lui vede, e quasi, a sentire come lui sente.
Dopotutto, non fanno questo i grandi artisti? Non ti fanno essere altro da te?
Lo spettatore è una via di mezzo fra complice e vittima: subiamo quello che Jack ci propone, ma al contempo non vediamo l’ora di vedere cosa succederà nel prossimo “incidente”. La potenza del cinema di Von Trier risiede proprio lì, nel lavorio sotterraneo ed efferato che opera dentro di noi.
Lo spettatore esce dalla sala stordito, ubriaco. Dopo un film di Trier pensi a tutto quello che si nasconde dietro le porte, dentro i tombini. Vedi “l’animo oscuro della luce” — una splendida immagine che il regista utilizza nel film, e sulla quale il film si spegne.
Continuando dantescamente, per entrare nel cinema di Von Trier dovete lasciare ogni speranza. Speranza di una comprensione totale e univoca. Soprattutto, accettare un patto che ti porta a perlustrare zone scomodissime dell’esistenza e dell’umanità.
Personalmente, non vedevo l’ora che il film uscisse. Ci sono gran pochi registi che esplorano gli abissi così come Lars riesce. Accanto a lui metto David Lynch.
Certo, se cercate il film di evasione, un paio d’ore di cine-entertainment, “The House that Jack Built” forse non fa per voi. Se invece volete l’evasione suprema, quella che vi permette di uscire dalla vostra piccola esistenza quotidiana e accedere a uno spazio in cui investigare l’umano essere — e l’umana follia, anche — il film sarà pane per i vostri denti.
Nella saletta piccola dell’IFC Center dove ho visto il film, il pubblico si è diviso fra quelli con le mani sugli occhi durante le scene più cruente, e quelli che ridevano per l’umorismo nero del regista. Quanto alle mani sugli occhi, sono ovviamente inutili: non c’è nulla di visivamente inguardabile, o che non abbiamo già visto — forse soltanto un paio di forbici in mano a Jack bambino le cui lame finiscono per stringere troppo la zampa di un anatroccolo…
Moviers coraggiosi, imbarcatevi in questo viaggio e andate a vedere la casa di Jack!
Potete tranquillamente prendervela con il vostro Board se il film vi sconvolgerà 🙂
E anche per stasera è tutto, Fellows.
Frunyc IV aggiornato, e saluti, stasera, poeticamente cinematografici.
Let’s Movie
The Board
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LET’S MOVIE da NYC commenta “SICILIAN GHOST STORY” di Antonio Piazza e Fabio Grassadonia

Mimbarco Moviers
sulla Miss Liberty, una mattina gelida, un paio di domeniche fa. Il cielo sopra è grigio, l’acqua sotto ancora peggio. Mi vieto di pensare quali contenuti possa contenere.
La Miss Liberty è diretta a Ellis Island.
È una traversata che rimando sin da quando sono arrivata qui, due anni fa — sì, già due anni, il 2 novembre scorso.
Perché?
Perché Ellis Island, prima di essere un luogo geografico, con i suoi muri e le sue porte, i suoi mattoni e il suo pontile, è un luogo del pensiero.
Lì, in quella forma tutta mia di quel posto, ci sono stata infinite volte. Ne ho camminato i corridoi, fatto su e giù per le scale. Ho sentito i mormorii dei sogni, e lo schianto delle aspettative.
Per far capire quanto quell’isola pesi nel mio immaginario, vi dico che ci ho scritto una serie di quindici poesie, prima ancora di metterci piede. Mi ha accompagnato in Spagna, mi accompagna qui, indipendentemente dal quartiere in cui io mi trovi. È come una presenza costante, Ellis Island.
E questo perché parla di me, declinandomi al passato. Io sono — well, noi siamo — tutti declinati al presente, ovviamente. Ma ci sono delle situazioni, oppure dei posti, che hanno la facoltà di scrivere chi siamo al passato.
Questo succede, per me, a livello dello spirito, con Ellis Island.
Poi, quando un luogo mentale diventa fisico, ovvero quando ci portate il vostro corpo, e quei corridoi e quelle scale, li camminate con le vostre gambe, l’esperienza esercita un impatto doppio.
L’ho rimandata perché temevo che l’impatto sarebbe stata troppo forte. Che il momento in cui l’esperienza fisica avrebbe incontrato quella emotiva sarebbe stata una collisione, un punto di rottura.
Non volevo disintegrarmi.
A voi non capita mai di temere di disentegrarvi, a un certo punto? A me sì. Come se la pressione fosse troppa, e si implodesse, e il nostro petto finisse in un’infinità di stelle.
Non sarebbe una brutta morte, a ben vedere.
A ogni modo, non è successa. La collisione. La rottura. È stata invece, una congiuntura. Una congiunzione, direi. Tra passato e presente.
All’inizio del ‘900 Ellis Island ha rappresentato la porta d’ingresso per gli Stati Uniti. E non solo per gli italiani. Ma per mezza Europa. Irlandesi, greci, polacchi, russi, ebrei, slavi, you name it. Tutti a imbarcarsi in un viaggio che non finiva dopo i nove giorni di traversata, ma che dopo nove giorni di traversata, cominciava.
Il raffronto tra quegli immigrati storici e gli immigrati di oggi è scontato. Allora non avevano letteralmente nulla. E non parlo di averi fisici. Ma di conoscenze intellettuali. Non conoscevano la lingua. Molto spesso non sapevano leggere e scrivere nemmeno nella loro lingua madre.
L’idea di arrivare in un paese senza padroneggiarne il linguaggio m’inquieta da sempre. La lingua non è solo comunicazione, ma è anche giustizia. Potere. Esserne privato ti mette alla mercé di qualcun altro.
La maggior parte degli immigrati italiani non veniva dalle città. Quindi molto probabilmente non aveva mai visto un palazzo alto più di quattro piani. Oppure un tram. Oppure un ponte. Figurarsi cosa doveva essere ritrovarsi con la skyline newyorkese in lontananza — il Brooklyn Bridge di fronte, la Statua della Libertà sulla sinistra. Tantissimi grattacieli stavano spuntando proprio in quegli anni. La città era tutta un cantiere.
Mi ha colpito, del posto, la dimensione. Per la prima volta da ché sono sul suolo americano, qualcosa non mi è apparsa smisuratamente grande. Al contrario, direi che la struttura centrale è di dimensioni contenute, viste le quantità di sbarcati da accogliere e smistare. La registry room è spaziosa, sì, ma non ginormous, come si dice da ‘ste parti il superlativo di enorme.
Forse le misure mi sembrano ridotte perché lo spazio — a parte la registry room — è suddiviso in tante piccole stanze, in cui venivi fatto passare nel tuo percorso verso la goilden door — la porta d’oro che ti cinsentiva l’accesso al Nuovo Mondo.
Inspection room e mental room, dove ti visitavano e ticket room, dove acquistavi il biglietto per il treno che ti portava in New Jersey, o in Pennsylvania, o in Iowa.
Sono i controlli sanitari, quelli che più rimangono impressi. Il modo bruto in cui ti spogliavano e controllavano. Se eri troppo magro, troppo smunto, troppo verde o troppo giallo — immaginatevi la tonalità dell’incarnito dopo una traversata in mare di dieci giorni — troppo scuro — noi italiani eravamo i white niggers, ricordate? — oppure se camminavi un po’ storto, se ti rigiravi troppo le dita, se uno di questi “se” ti capitava, facile che il dottore di turno ti facesse marchiare la giacca con una croce. Se succedeva, ti beccavi una “thorough examination”, il che voleva dire, una visita da capo a piede.
Ma quello più impressionante era il “weeding out process”, ovvero “lo sfoltimento”, che avveniva tramite test volti a valutare le tue capacità logiche e di “buon senso”.
Tra queste, delle domande assurde, e molto spesso, a trabocchetto.
“Come lavi le scale? Dall’alto verso il basso, o dal basso verso l’alto?”.
Pauline Notkoff, un’immigrata polacca arrivata in America nel 1917, racconta che una ragazza, proveniente dalla sua città, a quella domanda rispose “Io non vado in America per pulire le scale”.
Chissà se la risposta piacque agli ispettori sanitari tanto quanto piace a noi.
Tra i modi in cui venivano distinti gli immigrati: feeble-minded, mental defective, constitutional inferior, idiot, stupid, moron.
I test a cui venivano sottoposti potevano essere difficili. Oggi sappiamo che alcuni dottori portavano i test a casa e li sottoponevano a parenti e amici, just for fun. E loro stessi, individui scolarizzati, parlanti nativi della lingua e colti, non li superavano.
Figurarsi un immigrato da Acitrezze, Spilinbergo, o Borgo Valsugana!
Ci sono storie raccapriccianti di famiglie divise. Il marito trovato “non idoneo”, la moglie “idonea”. Il marito deportato a casa. La moglie lasciata sola sulla soglia di una vita immaginata a due.
Un bambino morto di polmonite nell’ospedale di Ellis Island — le visite dei famigliari non erano consentite. Una ragazzina con una banale infezione al cuoio capelluto ha trascorso otto mesi nell’ospedale di Ellis Island.
Senza dire una parola, senza vedere i genitori.
Oggi tante delle sale di Ellis Island ospitano delle fotografie che raccontano l’esperienza del migrare.
Io sono andata sulle tracce di quella italiana. Dai cartelloni che pubblicizzavano la Cunard Line, “la prima congiunzione celere diretta fra Trieste e Nuova York”, oppure La Veloce, che partiva da Napoli, oppure la White Star Line, che collegava New York, Boston e Genova. E ancora L’Esperia, “l’Assicurazione degli Emigranti”, che, dietro il versamento di dieci Lire, assicurava “Lire Milleduecento in caso di decesso infra i trenta giorni della data d’imbarco pagabili agli eredi”.
Una bella foto immortala alcune migranti, cariche di bauli. In lontananza una stazione ferroviaria molto famigliare a noi italiani, con la sua mezza luna di vetro: Milano Centrale.
Victor Tartarini, immigrato nel 1921, disse, in un’intervista del 1985: “America was a bid deal in those days… Because when they sent a letter or a picture… It was a big deal… Everybody thought everybody was rich in America… The Italian people, they thought America was gold”.
Il mito dell’America, era tutt’un mito. Una narrazione. Una fantasia — come ci ha mostrato benissimo Emanuele Crialese in “Nuovomondo”, immaginando mari di latte e alberi carichi, appunto, d’oro. Quegli immigrati non impiegarono molto a capire che così non era. Che i mari non erano di latte, e che gli alberi non erano carichi né d’oro. Ma anche se le difficoltà erano indubbie, chi riusciva a raggiungere Manhattan, capiva immediatamente che il potenziale di quel nuovo sconfinato paese era esso stesso sconfinato. Per questo così tanti italiani prosperarono qui. Capirono una massima che ancora vale oggi, e che mi piace molto. Qui si dice “the sky is the limit”. Nessun tetto a quanto in alto la tua immaginazione può puntare. Questo non significa che non cadrai e ti farai del male, cercando di raggiungerlo, quel cielo.
L’America è un paese fatto sulle rovine di chi non ce l’ha fatta, ma il fallimento è previsto nel percorso per raggiungere quella felicità custodita nel Primo Articolo della Dichiarazione d’Indipendenza. Se cadi, ti alzi e ci riprovi. Fino a esaurimento. E nessuno ti tratta da pariah. Nessuno ti giudica se hai fatto l’avvocato, venduto burritos, recitato in una commedia Off Broadway che non è mai decollata, o aperto un agenzia per cuori solitari che Tinder ti ha fatto chiudere dopo un mese di attività.
Questa forse, è la vera grande libertà dell’America. La possibilità di rivendicare il diritto all’errore, e al cambiamento. In Italia, siamo più marmorei. Se studiamo medicina, faremo per sempre i dottori, anche se, a un certo punto, non ci andrà più. Se riusciamo a guadagnarci un impiego nel pubblico, rimarremo nel pubblico fino alla pensione — se baby, meglio — e faremo tutto quanto in nostro potere per infilare il figlio nell’ambiente e fargli prendere quella strada sicura. Ecco, qui in America, non è così.
Non ci sarà la sanità pubblica, l’istruzione t’indebita fino alla crisi di mezz’età e non si scrostano gli infissi prima di ridipingerli (!), ma almeno le persone ci provano.
Io non sono un’immigrata storica. Sono un’expat –di lusso– di oggi. Non avevo una valigia. Ne avevo sei –suddivise in viaggi diverso, a mia discolpa (!). Non avevo in bocca il silenzio dato dal non sapere una lingua. Non avevo la miseria a mangiarmi i calcagni.
Eppure, io, come loro, ho lasciato il paese che mi ha partorito. Io, come loro, ho chiuso una porta.
Gli immigrati di ogni epoca passano tutti per Ellis Island.
Dopo di lei, ho proseguito il mio viaggio fino a Liberty Island, l’isolotto a forma di pepita che ospita Lady Liberty. Da Ellis Island a Liberty Island ci sono quattro minuti di traghetto, quindi niente di troppo picaresco.
Lo ammetto, ci sono stata più per togliermelo dalla lista. Abitare a New York e non andare a porgere i propri omaggi alla Statua della Libertà, è come abitare a Parigi e schifare la Tour Eiffel.
Ce n’est pas possible.
Proprio come non impressionavano le dimensioni di Ellis Island, non impressiona l’altezza, di Lady Liberty. Ormai siamo abituati a veder svettare chilometri di building in cielo, soprattutto dalle parti di Dubai. Impressiona, invece, la postura. Tutti questi anni a immolarsi in piedi, con quella fiaccola in mano, per rappresentare la libertà, e non solo in America, ma in tutto il mondo.
Quante ne avrà viste, Lady Liberty! È lì dal 1886. Ellis Island fu aperta sei anni dopo. Pensate quante navi le saranno sfilate davanti. In quanti occhi sognanti si sarà immaginata riflessa — non a caso fu considerata in quegli anni la “madre degli esuli”.
E pensate a quell’11 settembre 2001. La vista sulle Torri Gemelle sgombra, Lady Liberty ha assistito a tutto, ancorata al suo isolotto.
Quel giorno avrebbe voluto sedersi, penso. Poggiare la fiaccola per terra, e sedersi.
Anche oggi, penso, le deve costare una gran fatica, rimanere in piedi, reggere quella fiamma, quel simbolo.
La libertà è lavoro, dedizione. Dovrebbe essere un diritto inalienabile, ma non lo è.
Dobbiamo partire dal presupposto di dovercela guadagnare tutti i giorni.
Ogni volta che penso alla libertà, mi viene in mente Napoleone, che della sua corona, diceva: “Dio me l’ha data, guai a chi me la tocca”.
Ecco, io sostituisco alla corona la libertà.
Dio me l’ha data, guai a chi me la tocca.
Questa settimana vi parlo di un film italiano. Ebbene sì, arrivano anche qui. 🙂
“A Sicilian Ghost Story” di Antonio Piazza e Fabio Grassadonia, che ha aperto la Semaine de la Critique all’ultimo Festival di Cannes.
Ieri c’era Antonio Piazza a presentarlo al Quad Cinema, quindi sono andata ancora più volentieri.
“A Sicilian Ghost Story” racconta, con linguaggio che sconfina nel soprannaturale, la terribile vicenda di cronaca che vide per protagonista, nel 1994, il giovane Giuseppe Di Matteo, il ragazzino rapito, ucciso e sciolto nell’acido da sicari della mafia perché reo di essere figlio di un pentito che aveva deciso di collaborare con le forze dell’ordine.
Diciamo che una storia del genere va raccontata a priori. Il cinema è anche luogo in cui far sopravvivere la memoria. Persino — soprattutto — la memoria di cui ci si vergogna, come paese. Un atto barbaro come quello subìto da Giuseppe non deve essere mai dimenticato.
Io mi sono resa conto che non lo ricordavo — ero adolescente, va be’, ma c’ero. Ricordo che negli anni ’90 si parlava molto di pentiti e di bidoni di acido. Ma non ricordavo Giuseppe di Matteo, rapito a tredici anni, ucciso a quindici. Nel 1996.
Dire per immagini un fatto del genere non è impresa facile. Piazza e Grassadonia escludono il realismo di stampo cronachistico e preferiscono una soluzione che mescola generi cinematografici diversi, tra cui il fantasy, la favola gotica, il teen-movie, raccontando questa storia dalla prospettiva —inventata — di Luna, una compagna di scuola innamorata di Giuseppe decisa, dopo la sparizione del ragazzo, a trovarlo.
E’ evidente l’obbiettivo dei due registi di mantenersi fedelissimi alla storia — e questo è stato confermato anche dal regista Piazza alla fine della proiezione — ma di adottare una serie di archetipi che parlassero la lingua fantastica. A cominciare dal bosco, dove tutto bene o male ha inizio, oppure dal personaggio gelido della madre di Luna — una vera e propria matrigna di stampo favolistico — o ancora i mostri che perseguitano i due ragazzi, come il pitbull da cui scappano, oppure ancora la fedele migliore amica di Luna, che giunge in suo soccorso e le salva la vita.
Il tentativo di ridisegnare in termini artisitici i contorni di una vicenda così dolorosa per la storia italiana è degno di merito. E anche se non è l’unico caso in cui si vuole portare il fantasy in Italia — ricordiamo i film dei Manetti Bros, ma anche “Lo chiamavano Jeeg Robot” di Gabriele Mainetti — sappiamo bene quanto ancora refrattaria sia certa Italia a un linguaggio cinematografico altro da quello realistico.
Tuttavia il film non mi ha conquistato. E questo soprattutto per via della recitazione. Gli attori scelti, spiace dirlo, mancano totalmente di naturalezza. Si vede tutto il tempo che stanno recitando una parte.
Forse questo è dovuto anche a dei dialoghi poco efficaci, oppure forzati. Mi chiedo che film sarebbe stato, “A Sicilian Ghost Story”, se il cast fosse stato diverso. Se il copione fosse stato scritto come se a parlare fossero due adolescenti e non due adulti che fanno parlare due adolescenti.
Onestamente, durante il film, non vedevo l’ora che finisse. E mi sentivo in colpa perché un film così va promosso e guardato. Soprattutto dalle nuove generazioni, che si sa, non vedono di là dal loro tablet.
E proprio questo ci ha detto Antonio Piazza dopo la proiezione. “Il film ha diviso la critica, ma viene fatto vedere molto in giro. Specie nelle scuole.” In effetti la critica italiana l’ha criticato, mentre la critica americana ha speso parole di elogio sul film, così come quella euopea e francese. Non a caso Cannes gli ha concesso l’apertura della Semaine de la Critique. Ed è stato incluso anche nel programma del New York Film Festival, il mese scorso.
In più, il Sundance l’ha pregiato del suo endorsement. Piazza ci ha spiegato di come il team del Sundance li abbia invitati a Salt Lake City, li abbia aiutati con la sceneggiatura, li abbia incoraggiati in tutto e per tutto, e fatto conoscere Robert Redford, naturalmente.
L’America, checché se ne dica, fa anche questo…
Prima della proiezione, Piazza ha detto che per molti anni lui e il co-regista Grassadonia sono stati arrabbiati con la Sicilia. Se ne sono andati. Non riuscivano più a guardarla in faccia.
Dopo la proiezione, gli ho chiesto se il rapporto con la regione è cambiato, se loro due sono ancora esuli, oppure se sono riusciti a tornare. Mi ha detto che la rabbia si è attenuata, che adesso vedono quanta volontà ci sia di andare avanti, di lavorare bene, di essere generosi. Che, insomma, in Sicilia non c’è solo il marcio.
Ha detto che per il momento hanno una casa a Roma e una casa a Palermo. Fanno la spola.
Credo che fare la spola sia un gran bel modo di vivere una vita.
Sempre in movimento, mai radicati in un unico posto.
In sala il pubblico era a dir poco scandalizzato da quello che vedeva sullo schermo. Non una domanda è stata fatta nel Q&A — a parte una perplessità di una spettatrice che non aveva capito se avesse davvero capito il finale (!).
Gli americani non sono abituati a vedere questo volto dell’Italia. Preferiscono le colline toscane, il Chianti e Ferragamo. Ma l’ho visto, il modo in cui s’irrigidivano o sbuffavano mentre sullo schermo s’intuiva l’omicidio di Giuseppe, il suo corpo sciolto in un bidone, e il contenuto vuotato in un lago. Credo che nessuno spettatore in sala potesse immaginare un tale abominio. Anche noi italiani fatichiamo ad accettare che quella è parte della nostra storia.
Io penso che sia giusto che l’immagine dell’Italia venga conosciuta nella sua complessità. Luogo d’indicibile bellezza, luogo d’indicibile infamia, da cui però abbiamo preso le distanze. Dopo gli anni ’90, anni sanguinosissimi, non si sono più sentiti casi simili. Questo non significa che ci siamo ripuliti totalmente dal marcio, ma che siamo sulla strada giusta.
Voglio crederci.
E anche per stasera è tutto, Fellows.
Nel Frunyc IV trovate le foto di questa settimana — e se scorrete in quelle passate, vedete anche Ellis Island.
Vi ringrazio sempre dell’attenzione, e vi mando dei saluti, stasera, atlanticamente cinematografici.
Let’s Movie
The Board
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